Intervista a Michelangelo Frammartino


Sono bastati due soli film per fare di Michelangelo Frammartino uno dei registi più discussi di quest’ultimo decennio di cinema italiano. Il dono (2003) e Le quattro volte (2010), prodotti con budget bassissimi e girati con spirito avventuroso, hanno rivelato uno sguardo unico, di fatto inclassificabile, superando inoltre banchi di prova importanti come i festival di Locarno e Cannes. L’impatto è stato forte, tanto da spingere entrambi i titoli fuori dai cine-circoli esoterici della sperimentazione festivaliera, verso platee e occasioni di visibilità insperate. Amato dai cinefili duri e puri, apprezzato all’estero, Frammartino è oggi uno sperimentatore entusiasta, che alterna corsi e seminari presso scuole e università a installazioni al Moma di New York. Non un paria lamentoso e incattivito, ma un cineasta in continuo movimento, coerente e combattivo nella paludosa Italia cinematografica delle questue e dei compromessi.

FilmDOC lo ha incontrato a Genova, al termine di un workshop organizzato dal Laboratorio Probabile Bellamy al Teatro Altrove. Due intense giornate di proiezioni e discussioni, durante le quali il regista – nato a Milano nel 1968, da genitori calabresi – ha potuto mettere a fuoco la sua peculiare idea del mezzo e condividere con aspiranti filmmaker genovesi i metodi perfezionati in anni di studio e lavoro sul campo. All’ombra dei vicoli della Maddalena, ha quindi ripercorso per noi un’intera carriera, condividendo con sincerità e autoironia riflessioni e aspirazioni alla base del suo cinema di spazi aperti.

 

Sei qui a Genova per un seminario intensivo di cinema. L’attività didattica è una parte piuttosto importante del tuo presente e in generale del tuo percorso.

Sì, è una cosa che ho sempre fatto, anche se dopo Le quattro volte la richiesta è diventata più impegnativa. Per me il laboratorio – e parlerei di laboratorio più che di insegnamento – è un modo per continuare a fare le cose che normalmente cerchi di fare quando lavori al film. Poi è un modo per restare in contatto con la gente, senza cambiare linguaggi, estetiche ed etiche.

Quindi credi a un approccio in un certo senso didattico al fare cinema? Molti tuoi colleghi non ci credono, si limitano a lavorare sui loro set.

Mah, innanzitutto io credo che si possa aiutare a fruire determinate opere, determinati film. Non sempre chi fa scuole di cinema o università diventa un filmmaker: molto spesso si resta dei semplici spettatori. Il laboratorio è un modo per diffondere dei linguaggi e per capire anche come gli altri reagiscono. Quindi non lo si fa solo per formare il filmmaker, ma per incontrare l’altro. Poi, personalmente, se posso evito di fare un film con gli allievi. Cerco di proporre lavori diversi: delle installazioni, delle performance – per esempio adesso alla Iulm sto facendo un progetto sulla realtà aumentata. Discutere di cinema senza farlo, quasi delimitandolo con le discipline che confinano.

Questo ha a che fare anche con la tua formazione, immagino. Tu hai studiato architettura.

Io ho studiato architettura al Politecnico di Milano e poi cinema alla Civica, sempre a Milano. Però devo dire che, negli anni Novanta, tutto ciò che di importante avesse a che fare con le immagini era alla Cattolica. E infatti andavo lì due volte a settimana, per i corsi di Casetti. Alla Statale seguivo invece le retrospettive. Si usciva di casa la mattina presto e si tornava di notte: da un’università all’altra, da un corso all’altro, da un workshop all’altro.

Ed eri un semplice cinefilo – un aspirante architetto cinefilo – o avevi già un’attività parallela da filmmaker?

Contemporaneamente all’iscrizione all’università ho iniziato un consumo smodato di film. All’epoca andavo sempre al De Amicis, e poi a tutte le iniziative delle associazioni che in quegli anni stavano nascendo, come Vertigo o Pandora. In facoltà privilegiavo i corsi legati alla comunicazione visiva – disegno, fotografia, video. Seguivo un indirizzo di progettazione, però nel costruirlo avevo decisamente privilegiato l’aspetto visivo. Alla fine non so mai diventato architetto: ho dato 29 esami su 30. Ma di quei 29, almeno una decina li ho dati facendo installazioni, video e documentari – lavori sempre alternativi. Architettura permetteva la contaminazione.

Attraverso l’architettura sei arrivato alla pratica del cinema, in un certo senso.

Ammetto di aver fatto dei lungometraggi in video ai tempi della facoltà. Due lunghi, dei corti e dei mediometraggi. Li proiettavamo nella sala espositiva e avevamo addirittura un pubblico – questo non l’ho mai detto a nessuno. Sono stati una palestra importante soprattutto da un punto di vista tecnico. Giravamo con dei Video8… Erano esperimenti narrativi, molto molto ingenui.

Questo ci porta alle tue passioni cinematografiche. Sui tuoi rapporti con registi di generazioni precedenti – da Kiarostami a Bresson – si è detto parecchio, anche a sproposito. Circolano affermazioni davvero deliranti… Se non ricordo male, qualcuno ha scritto che Il dono è come se fosse L’albero degli zoccoli diretto da Takeshi Kitano.

(Ride) Voi critici avete colpe gravissime… Non quanto le nostre, ma quasi! (Ride ancora) Comunque, per me è stato importante il momento in cui ho scoperto che Nanni Moretti, prima di girare Bianca e La messa è finita, aveva fatto dei lavori in Super 8. Quella è una cosa che ti dà molto coraggio, e che me ne ha dato allora. La sconfitta e Io sono un autarchico sono film che ho guardato e riguardato infinità di volte perché li sentivo vicini in termini di possibilità. Poi, piano piano, ho iniziato a conoscere il panorama milanese. Tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta in città si produceva molto e si inventavano modi alternativi per fare cinema e sperimentazione – penso a Silvio Soldini, ad esempio. Però, da un punto di vista estetico, è stato sicuramente fondamentale l’incontro con lo Studio Azzurro: considero Paolo Rosa un mio maestro.

Moretti mi sorprende, anche perché ti si associa sempre a registi completamente diversi… Questa purtroppo è una brutta abitudine della critica: incasellare un regista nell’area di influenza di qualcun altro ed evidenziare così delle presunte continuità con ciò che già si conosce. Nel tuo caso c’è persino chi tira in ballo la continuità cine-zoologica. Si dice: Frammartino ha fatto un film con delle capre e quindi è per forza un emulo di Robert Bresson che, decenni prima, aveva fatto un film con protagonista un asino. 

Beh, però Bresson è stato importante. E anche Kiarostami, in fondo – come tutti i grandi cineasti degli anni Novanta. Di Šarūnas Bartas, controllavo la durata delle inquadrature e cercavo di capire il perché di sguardi fissi nel vuoto di un minuto e mezzo… Ma il cinema che ho visto di più, penso, è stato quello di Tsai Ming-Liang.

Béla Tarr?

Béla Tarr mi ha influenzato meno. E’ stato folgorante ma l’ho incontrato tardi, dopo il 2000, quando avevo già diretto delle cose, per cui non è stata una di quelle visioni che ti strutturano in termini di durata e di composizione. Perché – anche se non ci posso giurare – ritengo che, quando sei lì a costruire il tuo quadro, a volte rattoppi con qualcosa che ti è rimasto dei film che hai visto quand’eri più giovane. Guardando e riguardando, il cinema ti entra dentro.

Lo assimili.

Lo assimili, sì. Te ne alimenti. E ti aiuta poi a giustificare molte scelte. Diciamo che ho guardato molto cinema, anche se poi mi distraevo nel farlo. Paradžanov, Dreyer, Rossellini, le nouvelle vague, la slapstick comedy, Keaton e Chaplin… Ma anche i non cineasti, gli artisti che hanno preso in mano la macchina da presa. I lavori di Michael Snow e di Fischli e Weiss mi hanno influenzato tantissimo, con il loro coraggio di lavorare con gli oggetti, con la gravità. So che mi considerano un allievo di Ermanno Olmi… Mi onorano, ma non lo sono stato – per lo meno non direttamente. Non ho avuto un’ossessione per il suo cinema. Stesso discorso per altri grandissimi come De Seta, che ho recuperato in un secondo momento, o Piavoli. Sono registi che ho imparato a rispettare con la testa, ma che non sono arrivati nel momento del cuore.

E’ un punto importante… Una riflessione sulle influenze è quasi inevitabile quando ci si avvicina per la prima volta al lavoro di un regista esordiente o semi-esordiente. Penso a film come il recente Su Re, che rimanda volutamente a Pasolini. Ogni volta viene da chiedersi se questo rifarsi a, questo riprendere l’estetica di sia un modo per darsi dignità cinematografica o se ci sia dietro un pensiero, una rielaborazione vera. O se certe scelte estetiche siano semplicemente un fatto culturale. E’ difficile stabilirlo.

Sono totalmente d’accordo. Questo però non deve escludere la libertà di poter cercare indietro qualcosa che conosci, che ami o che ti ha colpito per aiutarti nel tuo lavoro. A volte ho sentito di potermi permettere di prendere cose da Bartas, dagli iraniani, dai videoartisti – i loro meccanismi soprattutto. E comunque io cerco sempre di fare altro, di non fare cinema. Il cinema è uno strumento che serve per fare altro. Per me è qualcosa che deleuzianamente ti riappacifica con il mondo, ti ci riconnette. E allora è su quella connessione che lavori, ed è quello il rovello: far sentire allo spettatore, all’uomo, che appartiene al mondo. Siccome filma l’invisibile, il cinema ha questa capacità. Non faccio film solo per fare cinema.

Quello che hai appena detto per molti sarebbe una bestemmia.

Ah, io davvero non faccio cinema tanto per farlo… Lo faccio per ricollegarmi con il mondo. Io per primo. E’ una riappropriazione.

Questo si riflette sui tempi dei tuoi film?

Sì, penso di sì. Io vedo l’immagine come qualcosa di fronte alla quale lo spettatore si perde e poi con la quale, nel corso del film, si ricongiunge. Il legame si stringe nella sala: quando esci sei riconnesso.

E’ il principio della fruizione delle arti grafiche: guardare l’opera finché non riesci a stabilire un contatto, non solo visivo.

Sì, se penso a Cezanne, per esempio, è così… Però il cinema in particolare, in quanto immagine in movimento, mi è sempre sembrato una responsabilità artistica ancora più grande. Ne ho parlato proprio qui a Genova con i ragazzi del workshop. Ho cercato di spiegare come la mia generazione sia cresciuta tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta, in un momento in cui sono apparse immagini “nuove”, inserite in palinsesti di intrattenimento infiniti. Tonnellate e tonnellate di immagini con le quali non c’era nessun rapporto, nessun legame emotivo. La mia è una generazione di spettatori, di voyeurs, una generazione inerte in tutto, anche in politica. Ma devo dire – ed è una mia sensazione – che forse alcuni registi miei coetanei stanno iniziando a esprimere un cinema migliore rispetto a quello che lo ha preceduto negli anni Novanta.

Forse, chi più chi meno, state cercando tutti di ripulire lo sguardo da queste incrostazioni televisivo-pubblicitarie. E’ una reazione.

Probabilmente sì.

Questo tentativo è ben visibile nel tuo cinema, secondo me. E non è tanto una generica ricerca di purezza, quanto di essenzialità.

Ho la sensazione che, regredendo, si vada verso una sorta di comunione. Una comunione che si è persa nella specializzazione. Semplificando, regredendo, andando all’origine, si è più attaccati alle cose.

Tutto ciò come si riflette concretamente nella lavorazione dei tuoi film? In particolare mi riferisco alla fase di concepimento, quando si definisce il soggetto.

Inizialmente lavoro per raccolta di elementi che mi toccano e che in qualche modo sono collegati a quello che mi interessa in quel momento. E poi, piano piano, misteriosamente, iniziano a crearsi delle connessioni.

Nel caso de Il dono?

Eh, andiamo indietro di anni… Il caso de Il dono è stato particolare: un lavoro piuttosto semplice che nel tempo invece è cresciuto, un po’ in fase di ricerca e un po’ in fase di ripresa. La prima immagine che mi è venuta in mente è stata l’ultima, quella del vecchio che si cancella. Tutto è partito da lì: da un’immagine, e non da una narrazione. Poi il film ha preso forma, ma non l’ho scritto finché non mi è sembrato che potesse aiutare gli altri. E l’ho fatto in maniera molto elementare – più che altro l’ho scarabocchiato. Non ci sono stati né un soggetto né un trattamento. Mentre per Le quattro volte, per motivi produttivi, abbiamo avuto una specie di sceneggiatura.

Con che troupe lavoravi sul set de Il dono?

Quella de Il dono era una troupe sgangheratissima. C’erano Mario Miccoli, un mio amico elettricista, uno studente di fonica al primo anno della scuola di cinema e Sara, una solida assistente. Non eravamo mai più di quattro o cinque persone sul set.

Prima eri andato tu stesso in avanscoperta a cercare i luoghi dove girare, immagino. Quella intorno a Caulonia è una terra che conosci molto bene.

Sì, certo. E’ il mio paese, della mia famiglia – dal quale mancavo, tra l’altro, da più di dieci anni. Ho passato lì un’intera estate a cercare i luoghi, e poi ho portato su a Milano mio nonno [Angelo Frammartino ndr], per lavorare sul personaggio. Comunque, il fatto che i miei film non siano scritti non significa che siano improvvisati. Sono dei film fotografati, disegnati, scarabocchiati persino, ma non concepiti attraverso la scrittura.

E definisci la struttura narrativa prima o, di fatto, aspetti che il film prenda forma mentre lo stai girando?

No, io vado sul set con un film molto ben definito in testa. Molto ben definito, ma attraverso altre forme che non siano la sceneggiatura: disegno, fotografia, video, animazione. C’è anche una fase in cui effettivamente scrivo, ma solo per fissare quello che ho nella testa, alla fine. Sia Il dono sia Le Quattro Volte sono stati film progettatissimi.

Tra Il dono e Le quattro volte sono passati sette anni: tanto tempo. Come furono, nel frattempo, le reazioni al primo film?

In realtà, per fare Le quattro volte, ho impiegato cinque anni. Il dono fu selezionato a Locarno – anche la Quinzaine di Cannes era interessata, ma avevamo già dato la nostra parola. Lì, con mio stupore, non solo venne recepito molto bene ma divenne una specie di caso. Tant’è vero che iniziarono a chiedercelo diversi acquirenti e dopo poco uscì in Francia. Quello che originariamente era stato un esperimento girato nel paese dei miei finì a Parigi in cinque copie. Fu una grande emozione, come l’accompagnarlo poi da Buenos Aires a Seoul. Dieci anni di lavoro avevano prodotto qualcosa che toccava e incuriosiva.

Erano anni in cui cinema come il tuo non si faceva più.

Erano gli anni del Dogma, ancora. Per cui quelle inquadrature fisse e quelle durate erano un po’ passate di moda. Andavano i film girati con la camera a mano.

Nei primi anni Duemila qualcosa si è effettivamente mosso però. Forse per l’attenzione inedita nei confronti dei documentari, che hanno cominciato a essere distribuiti e guardati con occhi nuovi. Non saprei neanch’io come definirla… Un’attenzione nuova per il reale, forse. Il tuo cinema, da questo punto di vista, mi pare si inserisca in una tendenza nata in quegli anni a uscire da certe gabbie, sia estetiche sia produttive, del cinema italiano. Una reazione, anche quella.

I documentaristi sono sicuramente stati la parte sana del nostro cinema per molti anni. Detto questo, io non ero innamorato del cinema italiano di quel periodo. Quando avevamo visto film prodotti con l’Articolo 8 ci erano sembrati molto brutti. E quindi non ci passava per la testa di andare da un produttore, non ci passava per la testa di passare dal Ministero, non ci passava per la testa nulla se non trovare una macchina da presa e fare un film in maniera selvaggia. E ci sono voluti anni perché questa situazione cambiasse: forse solo adesso intraprenderò la lavorazione di un film strutturato produttivamente. Quindi i miei erano film piccoli perché non si voleva che fossero fatti diversamente da come sono stati fatti. Per accettare di passare dal Ministero per finire Le quattro volte mi ci sono voluti due anni, quando ormai il film era quasi perso.

Avevi già fatto una parte di film e poi ti eri dovuto fermare, giusto?

Poi c’erano stati un po’ di problemi, diciamo. Per un anno e mezzo siamo stati sostanzialmente fermi, tant’è vero che nel frattempo avevo iniziato a lavorare a un’animazione.

Le quattro volte è il film che ha consolidato la tua reputazione, seppur anni e anni dopo Il dono.

Sì, è un film che è arrivato molti anni dopo. Mi rendo conto che in certi ambiti se ne parla ancora, però come vedi c’è bisogno di un tempo lungo per fare queste cose. I miei sono film molto sudati. C’è un lavoro sul reale che richiede molto tempo, anche se per opportunismo converrebbe fare subito un film già dopo un anno dall’ultimo. Ma il tempo serve per non rifare le stesse cose, per assimilare quello che hai fatto.

Le reazioni ti stupirono di nuovo?

Sì, tanto – comprese le vendite del dvd presso l’editore. De Il dono ci aveva stupito che uscisse: Nanni Moretti ci aveva chiamato per distribuirlo – anche se prima ci eravamo accordati con altri. Il fatto poi che Le quattro volte sia stato venduto a Cannes in cinquanta paesi per me resta inspiegabile. Cinquanta paesi sono tantissimi per un film con le capre! (Ride)

Come spieghi questo successo?

Guarda, quando eravamo a Cannes ho assistito alla proiezione stampa perché dovevo controllare il colore. E quando è iniziato il film ed è comparso il vecchio che tossisce si è creata una situazione comica con tutti che tossivano, sia sullo schermo sia in sala. E tutti hanno iniziato a ridere. Io lì ho avuto la sensazione che sarebbe stato un massacro. Ma devo dire che ero molto tranquillo: ero contento che lo avessimo finito. Sono pure uscito dalla proiezione, ricordo. Invece poi ho saputo attraverso la produzione che il film era piaciuto, e infatti è diventato quasi il film di quell’edizione, nonostante fossimo alla Quinzaine e non in concorso. Quindi, al di là dello stupore, alla fine ti dici che fare cinema così, con questo lavoro sulle durate, sulla connessione, sulla libertà dello spettatore e sulla sua appropriazione dell’immagine un po’ serve. A qualcuno arriva.

Parliamo di come lavori sull’immagine. Guardando i tuoi film ho sempre l’impressione che la tua ricerca sia quella di quadri all’interno dei quali cerchi di fissare e filmare avvenimenti e fenomeni naturali normalmente impossibili da fissare e filmare. Quell’invisibile di cui parlavi prima, appunto.

Non so… Mentre giro sono preso da tutta una serie di cose che accadono dentro l’immagine. Mi verrebbe da dire – col rischio di risultare categorico – che non cedo mai alla composizione, al gusto. Sono sempre lì a cercare di far succedere, a cercare un paradosso, a costruire un’immagine instabile. E davvero, in lavorazione, sento che il film è pronto solo quando è così: quando non ci sono immagini “belle”, che servono ad arrivare a “qualcosa” – quel qualcosa di cui parlavamo all’inizio.

E la creazione dell’immagine è un’attesa o è semplicemente un far accadere?

Di solito è una combinazione. Cerco di fare in modo che avvengano situazioni altrimenti impossibili. Nel piano-sequenza centrale de Le quattro volte – quello con delle capre – c’è stato un lavoro infinito per cercare di fare in modo che accadessero delle cose che era impossibile che accadessero, perché non potevi controllare duecento capre, il cane, il bambino… Quindi è come se fosse una sorta di conflitto con se stessi, un’ansia di creare e allo stesso tempo di farsi degli scherzi per impedirsi di creare. Un sottrarsi quel controllo che il cinema ha sempre, che la regia vuole avere sul reale.

Beh, ma la regia è sempre manipolazione: non penso sia possibile fare cinema senza manipolare consapevolmente la realtà.

E’ manipolazione, ma tu devi farti degli scherzi da solo se vuoi ridurre questa tua violenza, questa volontà di potenza. Ne Le quattro volte prima avevamo un uomo, poi delle capre, poi un albero che è lì fermo, poi un rito o i cantieri di carbone dove i carbonai hanno le loro consegne… C’era una progressiva riduzione del controllo.

In sostanza, tu ti crei un perimetro, che corrisponde a quello che hai immaginato, e poi cerchi di far accadere delle cose o aspetti che accadano.

E’ più un lavoro di oscillazione. Un’oscillazione tra le cose che vorresti fare e la scelta di una materia che però difficilmente puoi controllare. Limitarsi a parlare del confine tra documentario e finzione, come sento molto spesso fare dalla critica rispetto al cinema che stiamo facendo in questi anni, è molto riduttivo. Il mio è un cinema che cerca l’oscillazione, non solo tra documentario e finzione, ma anche tra la vita e la morte, l’umano e il non umano. Il problema dell’oscillazione è quello di creare delle immagini che non sono ferme. Cos’è che vedo lì quando c’è una capra dentro una casa? E’ un ovile o è davvero una casa, un interno? Un cinema di immagini che sono continuamente fatte di più strati, con componenti che sembrano non poter coesistere. E questa inconciliabilità – questa oscillazione – è la sua carne. La finzione, cioè la creazione del puro evento, è solo una delle componenti.

Perché questo venga colto tu hai bisogno di uno spettatore pensante, molto molto aperto.

Tu fai delle cose per qualcuno che le vedrà. E l’ossessione è come queste cose possano essere vive. Per vive intendo “non ferme”, che siano in grado di spingere il pubblico a lavorare, a essere spiazzato. E’ un dialogo: tu lasci degli spazi al pubblico, che li riempie e te li dà.

Il pubblico deve fare la sua parte, insomma.

Sì. Noi adesso abbiamo fatto la cine-installazione Alberi in un paese del Sud, abbiamo preso una maschera, l’abbiamo modificata, abbiamo modificato un loro rito e loro lo hanno preso e lo hanno fatto diventare loro tradizione. E io ero lì ad assistere, e adesso sta nascendo un lungometraggio. C’è quindi un dialogo con chi guarda e con il reale, ed è continuo.

Il tuo prossimo progetto, dunque, è Alberi?

Sì, stiamo lavorando allo sviluppo di Alberi. Quindi ancora un lungometraggio legato al Sud.

Come mai torni sempre al Sud? Sei nato e cresciuto a Milano, ma quando fai cinema torni costantemente nell’Italia meridionale, in Calabria, nella terra da cui proviene la tua famiglia.

Beh, mi legano l’amore e l’affetto per quella terra – che però non bastano, è vero… Ho detto in questi giorni che lo spazio del Sud è uno spazio più positivamente conflittuale. Il Sud è un luogo con le porte aperte, dove i confini non sono netti. E’ un luogo dove, quando ero piccolo, il pastore ti portava in casa la capra per mungerla e non la bottiglia di latte, dove il vicino entra e chiede se si può entrare bussando sul tavolo. Gli spazi sono meno definiti, molto congeniali perciò al cinema che sto facendo. Invece la mia Milano era una città di porte sprangate, di citofoni…

Milano era troppo definita: ti sentivi più prigioniero.

Prigioniero, sì. Mentre invece al Sud ci sono le pendenze, le salite, la forza di gravità. Con questo nuovo film ho la sensazione che si chiuda una sorta di trilogia dedicata al Sud, a questi spazi e in generale all’incontro tra regni.

Mi sembra di capire che la libertà dello sguardo sia alla fine la cosa per te più importante.

Sì. E quello spazio è stato fondamentale per il tipo di sguardo che ho esercitato in questi anni. In realtà, nelle interviste dico sempre che non vedo l’ora di fare anche a Milano un film così. Però al momento sto tornando lì, al Sud. Vediamo cosa succede dopo.

Massimo Lechi

 

Postato in Interviste.

I commenti sono chiusi.