Intervista a Ugo Fangareggi: una faccia da cinema


di Renato Venturelli.

Ha lavorato con Scola e Fellini, con Vittorio Gassman, Dario Argento e Mario Monicelli. Ma ha fatto anche film con Franco e Ciccio, un Pierino, una Pierina e Attenti a quei P2!. Ugo Fangareggi è uno dei grandi caratteristi del cinema italiano, un volto inconfondibile che passa attraverso cento film e oltre mezzo secolo di set. E’ il soldato Mangoldo che nell’Armata Brancaleone sta al fianco di Gassman dall’inizio alla fine, è Agonia di Operazione San Gennaro, è il mitico Gigi Scalogna che nel Gatto a nove code vince la gara di insulti, infilandoci dentro anche colorite espressioni genovesi. Ed è un attore di cinema e televisione che non ha mai voluto smettere di fare teatro: anche perché dal teatro era partito, e dalla porta principale.

“Eravamo nel 1961, e avevo letto che Squarzina cercava attori da inserire nei suoi spettacoli dello Stabile di Genova, perché in città non c’era una scuola e così dovevano andarli sempre a cercare a Milano o Roma. Io facevo l’attore dilettante con una compagnia serale di amici, avevamo cominciato facendo recite e mimi alle feste, avevamo anche fondato il club Oltre il ritmo al bar Cremonte di via Manuzio, a Genova. Ne aveva parlato Siliotti in un articolo sulla Gazzetta del lunedì. Sono andato al provino dello Stabile insieme all’amico Gianni Fenzi e ci hanno preso entrambi. Con Squarzina ho fatto Ciascuno a suo modo, l’abbiamo portato in tournée a Roma, Parigi… Dicevo poche battute, ma veder lavorare tutte le sere gente come Lionello o Turi Ferro vale più di qualsiasi scuola. Poi sono andato alla Compagnia dei Giovani, con De Lullo, Romolo Valli e Rossella Falk. Fu Nico Pepe a dirmi di mandare le mie foto alle case di produzione. E così è arrivata la chiamata dal cinema, e mi sono fermato a Roma, dove ero andato per le repliche di Ciascuno a suo modo”

Era il 1962…

“Carotenuto vide una mia foto e mi portò a Colpo grosso all’italiana di Lucio Fulci, un regista che poi mi ha chiamato spesso. Nella Parmigiana di Pietrangeli ho conosciuto Volonté, che inizialmente doveva interpretare la parte poi andata a Buzzanca. Ma il secondo film era Odio mortale, un film di pirati fatto dopo I moschettieri del mare: lo diresse Comencini, ma siccome era un film “di recupero” lo firmò il suo aiuto Montemurro. Però lo fece Comencini. E lì ho conosciuto tutto il mondo degli acrobati di cinema, una grande esperienza. L’ho rivisto di recente, non era affatto brutto come lo giudicavamo allora. Molti film di quegli anni sono da rivedere, li guardavamo un po’ troppo da intellettuali, oggi li vedo in modo diverso”.

Lavorò subito molto, e in film di primissimo piano…

“Per La congiuntura stavo andando a portare le foto alla produzione, quando Scola mi vide e mi prese subito. Ma non ho nemmeno lasciato ancora le foto… E lui: si va lunedì a girare a Rapallo! Ho fatto la scena in cui a Gassman viene rubata l’auto sul lungomare, e io lo mando dal boss: gli esterni sono liguri, ma gli interni sono stati poi fatti a Roma. E subito le cose si sono messe in moto. Scola mi ha presentato a Monicelli, ho fatto l’uno dopo l’altro L’Armata Brancaleone, Operazione San Gennaro di Risi, Non stuzzicate la zanzara della Wertmuller. Poi film con Fulci, Manfredi, Buzzanca, in Francia con Luis de Funès, ma anche Le avventure di Gérard di Skolimowski, dove ero con Carletto Delle Piane.

E Colpo rovente con Carmelo Bene, un cult.

“Avevo già conosciuto Bene anni prima, quando facevo La partita a scacchi alla Borsa d’Arlecchino di Genova, prima ancora di andare da Squarzina. Credo che avesse interpretato la nostra rappresentazione in termini d’avanguardia, mentre in realtà era tradizionalissima. Bene mi voleva per il suo Sade, ma ho dovuto dire di no perché mi impegnava troppo. Così come ho dovuto dire no a Dario Fo. Non potevo fare tutta la stagione con loro, questi mostri sacri ti impegnano per tutto l’anno e io volevo fare cose diverse. Mi annoia rifare tutte le sere le stesse cose, preferivo fare testi che stavano su 15 giorni, non mi impegnavano troppo a lungo ma al tempo stesso imparavo parecchio, più che stare un anno a far sempre la stessa cosa”.

Preferisce cambiare…

“Sì, come mi rompe l’eccesso di rigore, quei registi che fanno sempre provare e riprovare…”

Al teatro è sempre rimasto fedele, nonostante i cento film?
“Ho sempre fatto molto teatro. Con Giancarlo Sepe e Carletto Delle Piane avevamo fatto anche uno spettacolo sui fratelli Lumière, Lumière Cinématographique. Poi Delle Piane entrò in una delle sue crisi e ci piantò in asso poco prima dell’inizio. Sepe ebbe allora l’idea di partire dai funerali di uno dei due fratelli: restavo solo io, l’altro Lumière”

E Gigi Scalogna con Dario Argento, nel Gatto a nove code? Era già così?

“Dario veniva a vedere Lumière Cinématographique, mi parlava molto dei personaggi. Gigi Scalogna con la gara di insulti e l’accento genovese erano già nella sceneggiatura. Io ho recitato in inglese, poi l’ho rifatto in genovese, ma quando c’è stato da doppiare il film, la cooperativa dei doppiatori ha messo uno dei suoi. Succedeva spesso, è la casta dei doppiatori: dicevano che non trovavano l’attore, che era impegnato, ma era tutta una manfrina per metterci uno dei loro. Lì però mi sono veramente arrabbiato. In Bella, ricca, lieve difetto fisico, due anni dopo, invece sono riuscito a doppiarmi in genovese, facevo il carcerato”.

Con Gassman lavorò anche a teatro.

“Fu quando facevamo Brancaleone. Gassman interpretava a teatro i monologhi da Dostoevskij, Kafka, Beckett e Campton, mi ha chiamato per dodici giorni al teatro delle Muse e ho fatto questo spettacolo. Facevo dei numeri da mimo e recitavo il monologo sulla bomba atomica. Fu emozionante, bellissimo. Facevo anche un numero con le monetine: e una sera, quando caddero in platea, a raccoglierle fu Carmelo Bene, seduto in prima fila”

La componente mimica sembra importante nella sua recitazione…

“Sì, il mimo è sempre stato il mio forte. Quando ero con Gassman, un critico – Cibotto – scrisse che ero un mimo raro ed eccezionale. Anche in coppia con Carletto Delle Piane lavoravamo molto sull’aspetto del mimo”

In quegli anni fece anche 6 gendarmi in fuga, con Luis de Funès.

“Siamo andati a girarlo a Saint-Tropez, mi sono trovato benissimo. Il regista era Jean Girault, che mi ha poi chiamato anche altre volte”

Faceva l’hippie.

“Sì, io non ho mai fumato, ma lì fumavano tutti, con tutto quel “fumo” passivo uscivo di testa anch’io”

Ma si è trovato sempre bene dappertutto? Non c’è stata mai una lavorazione da incubo, un regista o un attore con cui si è trovato male?

“Mai trovato male con nessuno. Esasperato solo quando ci facevano fare troppe prove. Ad esempio a teatro, con Cobelli e altri. Una volta sono esploso: basta provare, mi sono rotto le balle! Secondo me, una volta che hai trovato la chiave non puoi continuare a provare. Ho una mia compagnia a Rieti, da qualche anno: una volta che fai due o tre prove poi basta, altrimenti diventa esasperante. Ma questo a teatro. Al cinema, mi sono sempre trovato bene, ho solo bei ricordi: con registi, attori, i direttori di fotografia li ho conosciuti veramente tutti”

Ha lavorato molto con Manfredi.

“Sì con Manfredi ho fatto otto o nove cose, ma ho fatto tanto anche con Franco e Ciccio”

Com’erano sul set?

“Uguali. Ciccio faceva un po’ l’intellettuale… Mi trovavo bene con loro”

E l’incontro con Fellini?

“Con Fellini è una storia lunga. Nel ’62 ero appena arrivato a Roma, mi trovavo al Valle con lo Stabile di Genova e cominciavo a distribuire fotografie alle case di produzione. Mi ero appena messo d’accordo con De Lullo e Valli per andare in tournée con loro, appuntamento il giorno dopo a Milano, quando alla sera torno a casa dalla vecchia zia a Montemario e lei mi dice: ha chiamato un certo Felliiini, che devi andare domani in via Tevere alle sei per un appuntamento con lui. Ma ormai mi ero impegnato ad andare a Milano, certo avrei potuto dire che ritardavo un giorno e andare da Fellini… Seppi poi che Fellini mi voleva portare con lui per un’intervista in televisione, perché gli interessava la mia faccia”

Ma vent’anni dopo c’è stato E la nave va…

“L’ho ancora rivisto per due o tre film, però non se n’è mai fatto nulla. Finché l’occasione buona è arrivata con E la nave va, dove faccio il capocameriere. Ma a quel punto avevo scoperto una cosa che prima ignoravo. Spesso il regista ti voleva per un piccolo ruolo, ma l’aiuto o gli altri della produzione volevano mettere altra gente e così gli dicevano non si trova, è impegnato, non risponde… ma volevano solo mettere i loro amici. Così Fellini quella volta mi chiamò direttamente, e anche Axel Corti si impuntò: mi voleva per La puttana del re, con Timothy Dalton e Valeria Golino, ma gli dicevano che non mi trovavano”

Ad inizio carriera fece anche un film che abbiamo riscoperto di recente, Al mare pago io, dove fa il finanziere in una scena alla frontiera svizzera, ma girata a San Rocco di Camogli.

“Durante la lavorazione il film s’intitolava Solo e c’era un produttore gentilissimo, Nunnari, veramente una brava persona. In Svizzera poi ero andato a girare alcuni Caroselli con Carlo Delle Piane, per i wafer Saiwa. Per la tv svizzera ho fatto anche il protagonista in Calandrino e l’elitropia, dal Boccaccio: la regia era di Grytzko Mascioni, un intellettuale che lavorò molto a teatro. Tra le parti che ho avuto come protagonista ricordo anche Sette monache a Kansas City, uno strano western parodistico, dove eravamo due ragazzi gay che andavano nel West per rimorchiare… Mi sono divertito un sacco!”.

Come vede adesso quel periodo d’oro anni ’60-’70 del cinema italiano, quando si facevano film di tutti i tipi e di tutti i generi? Adesso c’è la televisione…

Il cinema era molto più divertente. Con la tv si va di fretta, ma si lavora bene anche in televisione, e in fondo la gente ti vede anche di più. Certo al cinema c’è un bel ricordo, il rapporto con i registi, i tecnici, ma non ho rimpianto, la tv la faccio volentieri. Ho fatto di recente una puntata del maresciallo Rocca: Proietti lo conosco fin da quando faceva teatro sperimentale… Ora mi hanno chiamato per una puntata di Don Matteo. E il teatro non l’ho mai abbandonato. Uno degli spettacoli più intensi è stato Memorie di classe, dove facevo un vecchio che rievocava la tragedia del Vajont: era il maestro che non era riuscito ad andare alla partita di calcio della sua classe, e i ragazzini erano morti tutti, si era salvato solo lui. L’abbiamo fatto nel 1993, a trent’anni dalla tragedia, ebbero l’idea il figlio di un magistrato che s’era occupato dell’inchiesta e Maurizio Donadoni. Paolini ci aveva visto, poi mi ha chiamato quando ha fatto il monologo. Non andai, perché quello spettacolo mi aveva lasciato esausto, era troppo straziante, non ce la facevo più. Ho poi visto Paolini in tv, mi è piaciuto moltissimo”

Ma il ruolo della carriera cui tiene di più?

“Be’, in Brancaleone: è da lì che poi mi hanno sempre chiamato. A volte mi chiamano per pochi giorni, a volte per qualche settimana, a volte più a lungo. Ma prima portavo le foto, poi da Brancaleone in poi mi chiamavano loro. E così non ho mai dovuto fare nessuna telefonata…”.

 

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