Cinema ritrovato 2014 – William Wellman


di Antonella Pina.
Tra i suoi molti meriti, la XXVIII edizione del Cinema ritrovato ha avuto quello di far riscoprire ai cinefili presenti a Bologna un altro protagonista del cinema classico americano. Dopo le retrospettive dedicate a Ford, Hawks, Walsh e Dwan quest’anno è stato reso omaggio a Wellman, un regista altrettanto grande ma decisamente meno ricordato negli ultimi tempi.

William Wellman, tra muto e sonoro: quattordici pellicole appartenenti a generi diversi hanno portato lo spettatore dentro il mondo beffardo, violento e rigorosamente morale di questo regista. Soprannominato “Wild Bill” per i suoi modi bruschi e la conseguente aggressiva irriverenza verso gli studios e il perbenismo della società americana, Wellman era in realtà una persona a cui stavano a cuore le molte ingiustizie che affliggono la vita degli uomini. Tutte le sue pellicole sono riflessioni amare sull’esistenza.

Lo è, inevitabilmente, Wild Boys of the Road del ’33, trattandosi di un film sulla grande depressione, dove tre adolescenti, due ragazzi e una ragazza, abbandonano le loro case per non essere di peso alle rispettive famiglie. Percorrono l’America a piedi o sui treni merci, clandestinamente, insieme a centinaia di ragazzi nelle loro stesse condizioni, alla ricerca di un lavoro. Come sempre Wellman alterna momenti di comicità a momenti estremamente crudi, inserendo frammenti di grande potenza visiva: ci sono ragazzine insolitamente moderne che pur non essendo “cattive ragazze”, vogliono essere continuamente baciate; c’è un ragazzo che perde la gamba tra i binari del treno nel tentativo di sfuggire alla polizia ferroviaria, mentre un altro, in un diverso tentativo di fuga, viene catturato all’interno di un cinema dove la sua immagine si sovrappone a quella di James Cagney nel film Footlight’s Parade (Viva le donne!) di Lloyd Bacon, un’altra pellicola sulla grande depressione ma dai toni decisamente più leggeri. La cosa strana è che quando il film di Wellman venne presentato al pubblico,  Footlight’s Parade non era ancora uscito nelle sale, sarebbe uscito un mese più tardi. Immaginiamo che Wellman volle rendergli omaggio con una sorta di preview.

Anche A Star is Born (E’ nata una stella) del ’37 racconta una storia decisamente amara, probabilmente nota a molti grazie all’omonimo remake di Cokur del ’54, film questo certamente più famoso ma non più bello dell’originale. E perfino una brillante screwball comedy come Nothing Sacred (Nulla sul serio) del ’37 per quanto molto divertente, contiene una cinica riflessione sull’etica di un certo giornalismo e su come, appunto, non ci sia niente di sacro, niente che non possa essere venduto per ottenerne denaro e successo, neppure la morte.

I western di Wellman

La retrospettiva dedicata a Wellman comprendeva tre film western, tutti decisamente belli. Due di questi hanno uno strano e quasi identico inizio:  un gruppo di cow boys entrano in un saloon e si posizionano davanti al bancone ordinando da bere. Tutti sono attratti da ciò che si trova alle spalle del barista: non il solito specchio ma un dipinto.

In The Ox-Bow Incident (Alba fatale) del ’43, il dipinto ritrae una giovane donna sdraiata in un letto, alle sue spalle una tenda pesante che un uomo sta varcando per poterla raggiungere. Henry Fonda è uno dei cow boys ed è un po’ amareggiato dall’ inevitabile considerazione che, in realtà, quell’uomo non raggiungerà mai la donna: pur avendola lì, a portata di mano, resterà per sempre immobile a guardala nel tentativo di attraversare la tenda. Tutti i presenti guardano il dipinto e lo commentano, svelando al pubblico i loro pensieri.

Questi uomini, a cui se ne aggiungeranno altri, si troveranno poi a dover decidere se impiccare o meno tre presunti assassini e ladri di bestiame. Contro i tre ci sono indizi pesanti ma confutabili e non sufficienti a maturare la certezza della colpa. In un paese con un radicato senso della giustizia si attenderebbe l’arrivo dello sceriffo. Non qui. C’è una votazione e si decide per l’impiccagione. Naturalmente, ad esecuzione avvenuta, la loro innocenza verrà provata. Un grande Fonda a cui forse manca la “personalità cinematografica” di Wayne che si impone al suo semplice apparire, ma ha la straordinaria capacità di cancellare se stesso e diventare il personaggio. Per usare le parole di Wellman: “parlare come lui, sembrare lui, e avere anche il suo odore”.

In Yellow Sky (Cielo giallo) del ’48 la situazione iniziale è la stessa, cambiano i particolari del dipinto: questo ritrae una giovane donna con una veste chiara e leggera legata sul dorso di un cavallo. Il meccanismo è identico, Wellman offre al pubblico la possibilità di capire con chiarezza quali sarebbero le intenzioni di ciascuno dei presenti nel caso avessero accesso alla ragazza. Trattandosi di una banda di rapinatori di banche, tra cui si distinguono Gregory Peck e Richard Widmark, il confine tra il bene e il male non è per nessuno di loro perfettamente tracciato. Il gruppo deve attraversare il deserto per sfuggire ad un inseguimento. Rischiano di morire di sete, un cavallo muore di stenti, e quando si imbattono in una lucertola a cui Wellman dedica un primo piano, uno di loro, infastidito dal fatto che lei possa sopravvivere, la uccide. Incredibilmente, per un film western, qualcuno si rammarica per il gesto, ma viene zittito con una laconica risposta: “perché te la prendi tanto, è soltanto una lucertola”. Riescono a sopravvivere e a trovare rifugio in una città fantasma abitata da una strana coppia di cercatori d’oro, un anziano James Barton e la giovane nipote Anne Baxter, entrambi amici degli apache: “gli indiani sono brave persone se impari a conoscerle”.

Il destino del loro oro e della giovane donna sembra segnato ma la Baxter interpreta uno degli splendidi personaggi femminili di Wellman: è una grande protagonista della storia, è caparbia e coraggiosa, porta i pantaloni e spara come un uomo, nonostante la sua bellezza. Il gruppo comincia a disgregarsi, quando uno di loro aggredisce la ragazza, altri la difendono, e la risposta è sempre la stessa: “perché ve la prendete tanto, è solo una donna”. Il confine tra ciò che è bene e ciò che è male si è fatto più preciso, gli indecisi fanno la loro scelta, i cattivi moriranno e il lieto fine sarà splendido. Ricorda The Treasure of the Sierra Madre ( Il tesoro della Sierra Madre) uscito lo stesso anno, per come l’oro possa fare impazzire gli uomini e My Darling Clementine (Sfida infernale)  del ’46, per lo splendido bianco e nero di Joseph MacDonald.

Il terzo film è Westward the Women (Donne verso l’ignoto) del ’51, dove una carovana di oltre cento donne guidata da un inesorabile Robert Taylor, lascia Chicago per raggiungere la California affrontando un viaggio estremamente pericoloso di oltre 2000 miglia. Era il 1851 e John Mcintire, proprietario di una grande e fertile valle aveva deciso che i suoi centocinquanta uomini dovevano sposarsi e dare vita ad una nuova comunità.

Le donne vengono selezionate con cura: devono essere coraggiose ma anche “good women”, con intenzioni serie circa il matrimonio. In principio Taylor è scettico: “C’è solo una cosa di cui ho paura: le donne, soprattutto se sono brave”. Il viaggio ha inizio, le donne imparano presto a condurre un carro, trattare con i muli, sparare e affrontare con fermezza ostacoli di ogni tipo. Sono brave, ma non nel senso tradizionale, altrimenti sarebbero rimaste a casa. Alcune desistono, altre muoiono, ma la maggior parte di loro riesce a raggiungere la terra promessa. L’opinione di Taylor è cambiata: queste sono le donne di Wellman, sanno fare tutto ciò che un uomo sa fare senza rinunciare alla propria femminilità. Prima di partire si erano avvicinate al tabellone dove Mcintire aveva appuntato le foto dei suoi uomini e ognuna di loro aveva scelto un volto.

Alla fine del viaggio non vengono selezionate dai cow boys come al mercato del bestiame: sono le donne ad aggirarsi tra gli uomini alla ricerca del volto già scelto. Una di loro si chiama Moroni ed è italiana, nel film non viene doppiata e quindi parla italiano, è l’attrice Renata Vanni. E’ vedova e durante il viaggio perde il proprio figlio, Antonio Moroni, un ragazzino amato dalle altre donne e dal pubblico. E’ la luce dei suoi occhi ed è lei stessa ad ucciderlo con un fucile: le parte accidentalmente un colpo mentre lui stava insegnandole ad usarlo. Ha scelto la foto di un uomo che, dai caratteri del viso, le pareva potesse essere italiano. Scopriremo infatti che viene da Milano. Lei invece è genovese. Un film epico, uno splendido bianco e nero, con alcune inquadrature che stagliano geometricamente le donne contro il cielo alla maniera del cinema realista dell’avanguardia russa.

Antonella Pina

 

 

 

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