Lo chiamavano George Eastman


di Fabio Zanello.
È stato un’ icona del cinema di genere italiano degli anni ‘60 e ‘70. Oggi Luigi Montefiori è uno degli autori più attivi della fiction tv.

DOPO ANNI DI GLORIOSA MILITANZA NEL CINEMA DI GENERE ITALIANO SIA NELLA RECITAZIONE CHE NELLA SCENEGGIATURA, il genovese Luigi Montefiori (aka George Eastman, classe 1942) torna oggi agli onori della cronaca con fortunate fiction televisive come L’onore e il rispetto. In cosa consiste l’unicità della sua carriera? Diamoci una risposta: ogni volta che ritorna una rivalutazione dell’exploitation italiana dei Sessanta/Settanta, il suo nome torna in mente per riscrivere la vitalità prorompente di quella cinematografia, in un percorso artistico che tende ad adeguarsi ai nuovi dettami dei generi nel passare degli anni. Montefiori ne è uno dei pilastri fondanti. Sessanta film all’attivo come attore, dove si cimenta  praticamente in tutti generi, che sono il western (l’esordio attoriale in  Django spara per primo di Alberto De Martino, per proseguire con altri titoli seminali quali Bill il taciturno di Massimo Pupillo, Ciakmull-L’uomo della vendetta di Enzo Barboni e Amico, stammi lontano almeno un palmo di Michele Lupo) l’horror (Antropophagus di Joe D’Amato su tutti), il poliziesco (il pre-quentintarantiniano Cani arrabbiati di Mario Bava e Sangue di sbirro di Alfonso Brescia), il soft-core (i balzani Emanuelle e Francoise-le sorelline e Le notti erotiche dei morti viventi diretti entrambi dall’amico D’Amato/Aristide Massaccesi), il post-atomico (Anno 2020-I gladiatori del futuro nel 1982 sempre con D’Amato) fino a sconfinare nell’autorialità di Pupi Avati (Bordella e Regalo di Natale) a seconda delle istanze del mercato e perfezionando così una recitazione sovraccarica e nervosa, marcata dalla sua imponente fisicità. Da allora è un crescendo: Montefiori non rimane nell’alveo del cinema di genere solo davanti alla mdp, ma tenta anche la regia con risultati in verità non memorabili (DNA formula letale, 1990) fino alla sceneggiatura, che come vedremo nella seguente intervista, lo interessa dagli inizi. Il culmine creativo di questa seconda pelle è lo script del western Keoma (1976) per Enzo G.Castellari e come altri personaggi del settore trova un terreno fertile  nella televisione, dove scrive serial di successo come Il principe del deserto (1989), La squadra (2000), Uno bianca (2001) di Michele Soavi.

Luigi Montefiori (aka George Eastman) prima di frequentare il mondo romano come era la situazione dei set cinematografici nella tua Genova, visto che nei Settanta è diventata location per alcuni poliziotteschi come quelli di Enzo G.Castellari?

Mi dispiace di non poterti rispondere sulla situazione genovese dato che all’epoca non me ne interessavo, in quanto il mio interesse era rivolto esclusivamente alla pittura.  Venni a Roma nel ’66 per continuare a dipingere, e solo dopo, frequentando locali in cui si incontravano pittori e cineasti, cominciai a incuriosirmi decidendo di iscrivermi al Centro Sperimentale di Cinematografia.

In un’intervista a “Stracult” hai dichiarato di aver avuto come insegnante di recitazione Nanny Loy al Centro Sperimentale. Quale metodo didattico usava con voi studenti? Avete appreso da lui anche nozioni di regia?

Nanni Loy fu anche il regista che diresse il mio provino d’esame per essere ammesso al CSC. Insegnava recitazione “cinematografica”, ossia  ci spiegava che il grande schermo, specialmente nei primi piani, amplificava la mimica dei volti  e che quindi l’esibizione delle emozioni doveva essere più trattenuta e interiorizzata, rispetto alla recitazione teatrale dove bisognava invece sottolineare le emozioni per farle arrivare agli spettatori dell’ultima fila.

Quando hai lavorato con Enzo Barboni in Ciakmull, si trattava di un western serio e politico. Lui secondo te pensava già a quei tempi ad una svolta comico-parodistica come quella fortunata di “Trinità”?

Ciakmull fu il primo film che scrissi senza firmarlo. Il produttore era Manolo Bolognini (fratello di Mauro) ed era la prima regia di Enzo Barboni. La sceneggiatura a poco meno di una settimana dall’inizio delle riprese fu contestata dalla distribuzione perché la storia non convinceva. Io avevo già un contratto come attore co-protagonista che vedevo sfumare dato che il film rischiava di “saltare”. Proposi al produttore di  rimetterci le mani senza chiedere alcun compenso. In una settimana riscrissi tutta la seconda parte. La distribuzione fu soddisfatta ed il film si fece. Enzo Barboni lo diresse bene, con la competenza che si addiceva ad un ottimo direttore della fotografia quale era. Durante le riprese, la sua natura ironica e un po’ burlona, lo portava a commentare le  scene più drammatiche immaginando estemporanei risvolti comici che si rivelavano delle gags irresistibili.  Perciò proposi a Manolo Bolognini di girare oltre alle scene drammatiche, una seconda versione “comica”: ero convinto che se ne poteva tirare fuori un secondo film  da distribuire nelle sale dopo un lasso di tempo ragionevole, con un altro titolo, e che sicuramente avrebbe avuto successo. Purtroppo Bolognini temeva che si sarebbero allungati troppo i tempi di lavorazione e rifiutò la proposta. Fu subito dopo Ciackmull che Enzo propose il suo “Trinità”.

A partire da “Emanuelle e Francoise-le sorelline” hai cominciato a contribuire alla sceneggiatura. Lo avevi già fatto in passato? Oltre ai film che conosciamo quali sono i generi di cui ti sei occupato in fase di scrittura? Una di queste ora è un grande successo televisivo: L’onore e il rispetto.

Emanuelle e Francoise-le sorelline, se non sbaglio, è un film del ’74. Io avevo già scritto due anni prima Amico, stammi lontano almeno un palmo, un western che avevo interpretato con Giuliano Gemma, per la regia di Michele Lupo.  Ho scritto sporadicamente altre sceneggiature, soprattutto per Aristide Massaccesi a cui mi legava un forte amicizia, soprattutto storie horror e erotiche, tra cui Deliria che diresse Michele Soavi al suo esordio nella regia e che ottenne un riconoscimento al festival di Avoriaz. Mi sono dedicato in maniera esclusiva alla sceneggiatura agli inizi degli anni ’90, quando avevo deciso di smettere di recitare. Avendo avuto il mio primo figlio desideravo rimanere accanto alla mia famiglia, e ritenni che l’unico modo per riuscirci era quello di dedicarmi alla scrittura. Scrivevo soprattutto fiction televisive, inizialmente per la Titanus di Goffredo Lombardo (personaggio straordinario)  realizzando Il principe del deserto, Deserto di fuoco, Il ritorno di Sandokan  etc., grosse coproduzioni internazionali di genere avventuroso.   In seguito mi sono dedicato al poliziesco scrivendo la Uno Bianca e  una decina di episodi della serie La Squadra per RaiTre. Negli ultimi anni ho lavorato quasi esclusivamente per Canale5: Io ti assolvoCaldo criminale, So che ritornerai, Donne sbagliate, la serie dell’Onore e il Rispetto, Il Peccato e la Vergogna e tante altre.

C’è qualche lettura particolare che ha influenzato le tue stesure e i tuoi dialoghi negli anni?

Non in particolare. Anche se  devo ammettere che nella costruzione dei protagonisti “eroici” delle mie storie avventurose, mi ispiro molto ai personaggi dei fumetti del Vittorioso, compagno della mia infanzia. Devo qualcosa anche a Hugo Pratt e al suo Corto Maltese.
Con una certa coerenza e determinazione fin dalla metà dei Sessanta hai sempre partecipato a film di genere prima della collaborazione con un autore a tutto tondo come Pupi Avati beninteso. Da dove nasce questa direzione precisa della tua carriera, credo non sia dovuta solo alla tua fisicità imponente.

I film di genere, soprattutto gli western e i film avventurosi si ambientavano spesso all’estero. Non sceglievo i copioni, sceglievo le località dove si sarebbero girati. Volevo vedere il mondo.

Il cinema attuale di genere europeo e non (Quentin Tarantino, Eli Roth e Robert Rodriguez in primis) attinge parecchio per estetica e temi ai film che facevate voi nei Settanta. Ammette apertamente  i suoi debiti verso la nostra exploitation, anche se paradossalmente tu definisci spesso “una cretinata”, un horror ormai divenuto una pietra miliare come Antropophagous.   Qual è la tua opinione in merito e cosa pensi di questi film derivativi?Anche voi rielaboravate le pellicole americane e penso a 1990: i guerrieri del Bronx di Castellari.

La mia opinione è che Tarantino nel dichiarare la propria riconoscenza ai nostri registi di genere di quegli anni, abbia un po’ esagerato. Sicuramente vi si è ispirato, portando all’eccesso quella che era la caratteristica dei nostri film, ossia la violenza. Tarantino non ha fatto altro che  premere sull’acceleratore esaltandola, ma conferendole (grazie ai mezzi finanziari di cui dispone il cinema americano) anche quel valore estetico che rende i suoi film, pur se discutibili, quasi delle opere d’arte.
E’ vero,  anche noi qualche volta ci siamo ispirati ai grandi successi di genere americani (vedi appunto Interceptor e Mad Max), ma non siamo mai più riusciti a ripetere il miracolo che fece Sergio Leone quando, copiando smaccatamente Kurosawa, reinterpretò il cinema western dando il via ad una produzione sterminata di spaghetti-western.

Dei dettagli che accomunano queste opere  sono quelli dell’eccesso legato alla morbosità, perché il vostro cinema italiano  era così iperbolico?

Dovevamo attirare la gente al cinema. Era perciò necessario aumentare la dose di morbosità per incuriosire il pubblico e spingerlo ad andare a vedere il film.  L’escalation nell’orrore, nel sesso, nella violenza era inevitabile, e non solo nei film di genere, ma anche nei film cosiddetti d’autore. Non dimentichiamo Ultimo tango a Parigi e I pugni in tasca. La differenza era solo nello spessore culturale dei temi e nella raffinatezza della realizzazione.

Quale percorso dovrebbe intraprendere il nostro cinema di genere, per tornare ad essere vitale come una volta?

Onestamente non lo so. Credo che sia necessaria una nuova generazione di autori con la mente libera, in grado di raccontare le vecchie storie attraverso angolature nuove, che non siano solo una rimasticatura dei prodotti americani (come sta avvenendo in una certa fiction).

Il fatto di aver partecipato ai generi made in Italy non ti ha impedito di essere coinvolto in produzioni straniere ad ampio respiro come Il richiamo della foresta  di Ken Annakin, Un magnifico ceffo da galera di Kirk Douglas e King David di Bruce Beresford. Hai recitato in inglese? Traccia un bilancio di queste esperienze.

Sì, ero “costretto” a recitare in inglese. Sotto il profilo professionale sono state tutte esperienze positive. L’organizzazione dei set americani è sempre perfetta. Personalmente però mi divertivo di meno: per natura sono curioso, e durante un film amo mettere il naso dappertutto, interessandomi dei vari settori, arrivando a dare anche suggerimenti, cosa che potevo fare nelle piccole produzioni nostrane. Nei set americani invece era impossibile.  Ognuno doveva occuparsi solo del suo ruolo e non erano ammesse intromissioni.

Il coinvolgimento nelle opere di Pupi Avati ha regalato alla tua carriera una dimensione più intellettuale e intimista. Come è avvenuto questo incontro e come avete costruito insieme i tuoi personaggi di Bordella, Regalo di Natale e La rivincita di Natale.

L’incontro con Pupi è stato casuale. Per Bordella andai in produzione ad accompagnare un’amica che doveva presentarsi per un ruolo. Pupi mi vide e la mia stazza gli fece nascere l’idea per un nuovo personaggio Simbad, il marinaio e lo aggiunse nel film scritturando me invece della mia amica.

A proposito di gioco al tavolo verde, sappiamo da una certa aneddotica che lo coltivi con una certa passione. Il dittico avatiano sul gioco può essere considerato dunque biografico nei tuoi confronti? Hai contribuito alla sceneggiatura in che misura?

La passione per tavolo verde per fortuna m’è passata da tempo e non la rimpiango dato che m’è costata parecchio.  Come consulente per le partite di poker nei film c’era un vecchio giocatore assunto da Pupi. Io, anche se non condividevo con lui certe fasi della partita, non mi sono mai intromesso e nemmeno ho contribuito alla sceneggiatura. Pupi è una persona speciale, l’unico regista assieme alla Wertmuller, tra tutti quelli con cui ho lavorato, che sappia come aiutare un attore a dare il meglio di sè.

La brama di denaro pare essere una costante di molti film a cui hai partecipato inclusi i western: è una scelta dettata dal caso?

Se per brama di denaro intendi che cercavo di farmi pagare il massimo dai produttori questo è vero, se invece ti riferisce alle trame dei film è del tutto casuale.

Nella tua carriera hai lavorato praticamente con tutti i pesi massimi che la critica della mia generazione sta studiando e celebrando. Ma oltre ai vari Umberto Lenzi, Enzo G.Castellari , Mario Bava ecc. c’è qualche altro illustre dimenticato come Massimo Pupillo o Mario Imperoli, da me molto amato, che andrebbe rivalutato?

Ai nomi che hai fatto aggiungerei Giuseppe Vari, Bruno Corbucci e Ferdinando Baldi, tre seri professionisti, ma soprattutto tre ottime persone con cui era un piacere lavorare. Una menzione particolare a Michele Lupo, un regista che avrebbe senz’altro meritato maggior fortuna.

Postato in Attori, Numero 100.

I commenti sono chiusi.