Mostra di Venezia 2013: La jalousie


La trama di La jalousie è semplice, quasi banale. Louis (Louis Garrel, ottimo), attore di teatro donnaiolo e squattrinato, pianta in asso compagna e figlioletta per una collega bizzosa ma tremendamente affascinante (Anna Mouglalis, bravissima). Sguardi obliqui, passeggiate notturne e sesso in mansarda: non è un idillio romanticamente innocente – sempre di teatranti parigini si tratta, in fondo – ma sembra funzionare. Ben presto però il ménage, segnato da insoddisfazioni, tradimenti e difficoltà economiche, esplode. Lei lo lascia; lui, disorientato, si spara un colpo al cuore. Miracolosamente sopravvive. Elaborato il lutto, scoprirà che la vita va avanti anche senza di lei.

Per Philippe Garrel il tempo pare essersi fermato. Ostinatamente fedele a sé stesso, spettinato e melanconico come quei suoi protagonisti maschili insaccati in cappotti dal bavero rialzato, a sessantacinque anni suonati il regista di Les Amants réguliers continua la sua commedia umana, incurante di molto cinema contemporaneo, della rivoluzione digitale e della guerra in Afghanistan, di Marine Le Pen e della caduta del Muro. Certo, si dirà, la Francia in celluloide non è l’Italia: il bianco e nero non viene percepito alla stregua di una curiosità archeologica e il film è ancora convenzionalmente pensato – e vissuto – come spazio altro, con ritmi e linguaggi propri, in cui si cita Majakovskij con imperturbabile serietà, ci si dispera scompigliandosi il ciuffo e ci si innamora a lume di candela, in cui il primo bacio avviene con naturalezza sotto un lampione e a un abbandono può (deve?) seguire automaticamente un suicidio. Incarnazione totemica di ogni cliché cinematografico transalpino, Garrel è perciò un distillato di “francesità” gloriosamente demodé, l’ultimo mohicano delle nouvelle vague (della quale è stato figlio irrequieto ed è oggi, in un certo senso, necroforo solenne), un campione di autoreferenzialità da amare o odiare senza mezze misure. Difficile trovare autore più riconoscibile, più coerente, con i fantasmi di una vita sempre pronti a materializzarsi all’interno di narrazioni di volta in volta secche e sonnacchiose, ellittiche e dispersive, che partendo come banali intrecci sentimentali sono in grado di volgersi in spietata autoanalisi o persino in ampio affresco. Basta un fotogramma per capire di essere in un suo film, basta una nota di John Cale per entrare nel clima di sconfitta generazionale e tormento individuale. Dopo gli esordi sperimentali e le incursioni giovanili nel muto, infatti, tutto si è cristallizzato, soprattutto dal punto di vista estetico, nelle inconfondibili luci di William Lubtchansky e Willy Kurant, nei primi piani corrucciati dei protagonisti capelloni e patiti, e nei dialoghi sentenziosi di Marc Cholodenko, fedele sceneggiatore di tante variazioni sul tema dell’amour fou. Apparentemente bloccato in questa eterna e inguaribile ripetitività, l’universo garreliano si presenta allo spettatore come un orizzonte chiuso, un palcoscenico popolato da donne sfuggenti, attori, poeti e pittori di mezza tacca, figure indolenti e stropicciate che si offrono alla cinepresa riemergendo dal torpore quotidiano, sospinti da turbolenze esistenzial-sentimentali tanto prevedibili da risultare al contempo astratte e realissime, vicine e respingenti. E dunque lui, lei, l’altra e qualche volta l’altro, nella penombra dei café parigini o in qualche vecchio appartamento dalle porte scrostate e il letto sfatto, i libri Gallimard per terra e le tele da finire sul cavalletto. In questa bohème spoeticizzata e fuori dal tempo, tra colpi di fulmine, languide riappacificazioni, fughe e lettere d’addio, non esistessero gli antibiotici, probabilmente si morirebbe ancora di tisi.

Ma al netto dell’antiquariato cinefilo e delle suggestioni letterarie, è l’elemento autobiografico a emergere con più forza in ogni film, e a imporsi come il vero filo rosso di un’opera che tenta di restituire la stagnazione infelice della vita e le intermittenze inconsulte dell’amore risalendo il flusso della memoria – cinematografica e personale. Non fa eccezione La jalousie, la cui fonte primaria d’ispirazione è ancora una volta la storia familiare del regista. Il personaggio principale qui non è altri in realtà che l’alter ego dell’attore Maurice Garrel (1923 – 2011), nonno del protagonista Louis e padre del regista Philippe (che quindi si rispecchia nella piccola Charlotte, interpretata da Olga Milshstein). Il cortocircuito tra biografia e cinema crea scintille, disorienta: il nipote ripercorre nella finzione gli errori del nonno – in primis l’abbandono del tetto coniugale, gesto di egoismo che aveva compromesso a lungo il rapporto tra i due – mentre il figlio fa coincidere il suo sguardo con quello di una bambina innocente, osservatrice privilegiata dei contorcimenti amorosi di adulti immaturi ed egocentrici, troppo presi da sé stessi per comprendere la fatuità dei propri desideri e la gravità delle proprie azioni. Ne risulta il consueto melò raffreddato, dal ritmo lasco ma dalle svolte implacabili, scandito dai giri di chitarra di Jean-Louis Aubert. Il cambio di prospettiva, una specie di traslazione generazionale in cui le esigenze del cinema si intrecciano con le comprensibili difficoltà del bilancio intimo, offre però al film vitalità e tenerezza nuove, per quanto in linea con il vertiginoso romanticismo e la mestizia di sempre. L’amara disperazione delle pellicole precedenti (La frontière de l’aube, presentato a Cannes nel 2008, e Un été brûlant, fischiatissimo a Venezia nel 2011), segnale di un’evidente rifiuto estetico e politico del presente, lascia spazio a una malinconica pacificazione con il passato – prossimo nella finzione, remoto nella realtà – e alla consapevolezza rassegnata che presto o tardi ogni ferita, anche la più grave, è destinata a rimarginarsi.  E non è un caso che, per una volta, un suicidio non vada a buon fine. Stringi stringi, sembra dirci il regista con un mezzo sorriso, non vale nemmeno la pena uccidersi per una donna.

Massimo Lechi

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