Lo scorso anno al 29° Torino Film Festival Werner Herzog presentò Into the Abyss, il suo documentario sulla pena capitale, con il quale ricevette i consensi praticamente unanimi della critica e un certo interesse da parte dei media internazionali.
Evidentemente, il regista tedesco ha deciso di approfondire ulteriormente l’argomento, realizzando per la televisione americana Death Row, una miniserie composta da quattro mediometraggi in cui vengono intervistati alcuni detenuti del braccio della morte.
Martedì 16 ottobre – a circa un mese e mezzo dall’inizio del 30° TFF -, Herzog ritorna a Torino per presentare al pubblico del Cinema Massimo la sua ultima fatica, in un evento organizzato dal Festival e dal Museo Nazionale del Cinema.
Una delle caratteristiche che rimangono più impresse di Death Row è la delicatezza e la giusta distanza con cui l’autore affronta un tema così delicato e complesso: <<Il mio approccio generale è quello di vedere l’essere umano anche in chi ha commesso un crimine orribile>> afferma Herzog, aggiungendo che <<la chiave per trovare la voce e il tono giusti è rappresentata da una cosa molto semplice e molto difficile al tempo stesso: cercare nel profondo del cuore e dell’anima degli esseri umani.>>.
Herzog, infatti, non gira un film solo sulla pena di morte, ma realizza soprattutto un’opera sui più reconditi sentimenti umani, ponendo ai prigionieri domande sui loro sogni onirici e sulla loro quotidianità, oltre a concentrare molte inquadrature sui volti e sugli sguardi dei detenuti.
A confermare ulteriormente tutto ciò è lo stesso autore quando spiega come ha scelto le persone da intervistare: <<Ho cercato di concentrarmi sui casi che mostravano i lati più profondi dell’essere umano.>>. Così, ad esempio, è avvenuta la scelta di James Burnes – il protragonista del primo episodio – condannato per aver ucciso due donne: <<Il 70% del pubblico televisivo che guarda il mio tipo di film è femminile e così ho scelto James Burnes perché volevo realizzare un mediometraggio che rappresentasse le paure e le angoscie maggiori delle donne.>> racconta l’autore.
Se l’abisso dell’anima umana è indubbiamente il principale interesse del regista, si può comunque definire Death Row anche un film sociale dato il suo soggetto di partenza? Herzog in parte lo nega: <<In questo film non c’è un intento di critica, non sono presenti agende per impegni e lotte sociali, semplicemente si parla di vita.>>.
Al di là delle dichiarazioni dell’autore, risulta necessario affermare che nell’opera in questione emergono comunque diversi aspetti della società statunitense: nel primo episodio, l’intervista alla sorella di Burnes rivela una giovinezza fatta di violenza e spaccio di droga, una gioventù entrata in uno spiraglio criminale da cui è difficile uscire anche e soprattutto da adulti; nel secondo, la bellissima carrellata sul tragitto di strada che porta dal carcere all’effettivo luogo di esecuzione mostra il paesaggio suggestivo e squallido al tempo stesso della provincia americana, un luogo di decadenza economica e sociale, il quale rappresenta bene il contesto generale da cui provengono gli intervistati; nel terzo si narra una vicenda noir tragicamente reale composta da rapine, tentativi di fuga andati male, d’impulsi incontrollati e di scelte da cui non si può più tornare indietro, sottolineando forse lo smarrimento complessivo della società contemporanea.
Purtroppo, il quarto mediometraggio – probabilmente il meno riuscito – rimane forse troppo rinchiuso nel suo singolo caso, non riuscendo in effetti ad andare oltre la sua singola vicenda e a trarne spunti per riflessioni di più amplio respiro.
Dal punto di vista del linguaggio cinematografico, il film è molto semplice ed essenziale, a tratti persino povero, conseguenza soprattutto delle limitazioni imposte dalle istituzioni carcerarie e dalla struttura a interviste: <<le persone che si vedono durante il film le ho potute incontrare per soli 60 minuti.>>, spiega Herzog, il quale afferma giustamente che <<lo stile dipende dal soggetto, anche perchè non avevo quasi alcuna possibilità di fare dei movimenti di macchina, la quale rimane ferma per un’ora sulla stessa angolazione. In compenso, porto sempre con me una seconda telecamera che mi serve a riprendere i primi piani dei protagonisti e, successivamente, a lavorare con più agilità in sede di montaggio.>>.
Di conseguenza, vengono a mancare quasi del tutto le immagini evocative tipiche di molto cinema herzoghiano, questione che in tal caso all’autore non interessa molto: <<Anche se sono presenti delle riprese in esterno, il paesaggio vero è rappresentato dagli esseri umani.>> afferma il regista.
È inoltre molto probabile che Death Row – pur non essendo un film perfetto o memorabile – rimarrà impresso nella mente degli spettatori, così come ha profondamente segnato il suo stesso autore: <<Nel film non si vedono le mie emozioni perché la mia immagine è fuori campo, ma vi posso assicurare che il peso del materiale mi è piombato addosso in sala di montaggio. Infatti, dopo aver lavorato a questo documentario i miei collaboratori ed io abbiamo smesso di fumare.>>, racconta Herzog, che con questa frase spiega benissimo l’impatto emotivo e cognitivo che la sua ultima fatica può potenzialmente avere sullo spettatore.
In definitiva, gli episodi di Death Row risentono certamente di un linguaggio più televisivo che cinematografico, ma di un tipo di televisione alta e piuttosto rara, che tutto sommato non sfigura neanche nelle sale cinematografiche.
(di Juri Saitta)