Alla fine l’ha spuntata il “coreano, con buona pace degli sciovinisti nostrani dell’ultima ora. Pietà, il cupo dramma anti-capitalista del redivivo Kim Kiduk, ha accontentato tutti, dalla critica al pubblico in Sala Grande, compattando la giuria guidata dal bizzoso Michael Mann.
Un verdetto piuttosto prevedibile, che ha fatto però inviperire chi avrebbe voluto sul gradino più alto l’eterno enfant prodige Olivier Assayas – suo l’applaudito bildungsroman post-sessantottino Après Mai – o Bella addormentata di Marco Bellocchio.
La lotta, perciò, era tra grandi nomi. Se qualcosa si può rimproverare a Venezia 69, è forse proprio il non aver portato alla ribalta nuove personalità registiche, rimaste quasi tutte inchiodate sulla carta insieme alle rispettive bandierine nazionali. Sono mancati i Fedorchenko, i Larraìn o i Lanthimos di turno, e a farla da padroni, oltre a Kim Ki-duk, è toccato a cineasti già affermati, penalizzati sì dal confronto col recente passato, ma comunque capaci di assicurare un buon livello medio al primo atto del Barbera bis. Poche sorprese, dunque: qualche bluff (La cinquième saison di Brosens e Woodworth, Spring Breakers di Harmony Korine), oggetti misteriosi (Fill the Void di Rama Burshtein), esotismi (Thy Womb di Brillante Mendoza), certezze festivaliere (il temibile Ulrich
Seidl, Premio Speciale della Giuria con Paradise: Faith) e un solo motivo di vero imbarazzo (Passion di Brian De Palma).
Le vette? Su tutti, due titoli americani, accolti purtroppo da perplessità e molta miopia. Solo applausi rispettosi, infatti, per The Master di Paul Thomas Anderson, premiato con Leone d’argento e Coppa Volpi maschile ex aequo a Philip Seymour Hoffman e Joaquin Phoenix: un impressionante romanzo di non-formazione, incentrato sull’ambiguo legame tra uno spiantato e il carismatico fondatore di una setta religiosa. Un’opera ambiziosa e spiazzante che, con immagini potenti e dissonanze sonore, conferma un talento votato alla ricerca dell’animalità nelle gabbie sociali.
Fischi e ululati, invece, per il latitante Terrence Malick, grande favorito della vigilia. Suo il film più temerario della Mostra, estremizzazione radicale del precedente The Tree of Life. Poema per immagini e flussi di coscienza con la volteggiante Olga Kurylenko protagonista assoluta, To the Wonder racconta l’Amore (maiuscolo) come condizione esistenziale. Nascita e fine dei sentimenti, fluttuazioni della passione, solitudine e intimità: l’uomo è solo nella Natura e Malick è l’unico ormai ad avere l’incoscienza di filmare l’infilmabile. Un capolavoro “suicida”, clamorosamente incompreso.
Discorso a parte infine merita la delegazione italiana, per una volta ammirevole. Interlocutorio Un giorno speciale di Francesca Comencini, ma davvero brillanti le prove di Daniele Ciprì e Bellocchio, attualmente nelle sale. Il primo, all’esordio senza il sodale Maresco, con E’ stato il figlio ha abbandonato il cinismo di sempre in favore di un grottesco immaginifico sospeso tra la sceneggiata, il pop neomelodico e lo studio antropologico, strappando ben due premi (miglior fotografia e il Mastroianni per Fabrizio Falco).
Il secondo, in Bella addormentata, ha dato vita ad un affresco notturno sui tormenti dell’Italia dilaniata dal caso Englaro, un complesso mosaico di destini alla deriva in un paese smarritosi di fronte al dilemma etico. Cinema di suggestione visiva, in grado di interrogarsi sul reale con forza lancinante. Cinema che resta, nonostante i Leoni mancati.
(di Massimo Lechi)