Veronica (15 anni) e Salvatore (pochi di più) si trovano a convivere per una intera giornata in un fatiscente edificio con giardino alla periferia di Napoli.
Forse, quella grande costruzione abbandonata era stata una scuola o un collegio femminile dove si consumò anche il suicidio di una coetanea; ma ora è solo la prigione entro la quale Veronica è stata richiusa per uno sgarro alla camorra locale, mentre Salvatore è stato costretto a farle da custode, in attesa dell’arrivo del boss offeso e delle sue decisioni.
Da quanto sembra di capire, come Giulietta, Veronica è colpevole di aver avuto un rapporto (amoroso?) con un ragazzo della banda rivale, però non è questo ciò che il film di Leonardo Di Costanzo racconta. Infatti, L’intervallo non è, né vuole essere, una tragedia scespiriana più di quanto sia un dramma a sfondo sociale in stile Gomorra. Come suggerisce il titolo, e anticipa il prologo letterario in cui si parla di un uccellino in gabbia, Di Costanzo si propone “solo” di raccontare una generazione colta nell’“intervallo” tra la “colpa” e la “punizione”. E lo fa con lo stile che gli è più congeniale e che gli ha già dato notorietà internazionale: cioè, quello del documentario.
Interpretato da “perfetti” attori non professionisti (preparati alla recitazione in uno “stage” di tipo teatrale), L’intervallo è di fatto un film realistico, il quale documenta più che narrare. Le azioni vi sono ridotte al minimo e la storia di quella lunga attesa può essere riassunta in poche righe, senza che l’arrivo finale del boss e il suo dialogo con la ragazza vi aggiunga qualche sostanziale sorpresa. Ma il pregio di Di Costanzo è quello di saper raccontare, senza retorica e senza volontà di lanciare dei messaggi, una generazione sperduta: colta nel rapporto con una società contemporanea, anche se appena accennata; ma soprattutto alle prese con la difficile ricerca di se stessa e del proprio futuro. E, in questo senso, in un film di poche parole, diventa fondamentale il dialogo, squisitamente cinematografico, tra il comportamento dei due giovani protagonisti e il labirinto nel quale questi si trovano a convivere.
Prendendosi i propri tempi ed evitando accuratamente di cadere nello psicologismo o nel pedagogico, la cinepresa di Di Costanzo accarezza con amore e curiosità i personaggi, usando lo spazio scenografico come luogo e prolungamento della loro condizione esistenziale. Non giudica, ma descrive.
Fa vivere sullo schermo, in tutta la sua silenziosa ottusità, la profonda (anche perché mai consapevole) solitudine di quel ragazzo, Salvatore, prigioniero di un corpo sgraziato e troppo grande, di quel venditore di granite che al mattino scoperchia con il padre i due miseri carretti del loro lavoro e alla sera torna a coprirli senza bisogno di raccontare nulla di ciò che gli è accaduto. Soprattutto pedina Veronica, lasciandola vivere in tutta la sua complessità di teen-ager ribelle, ma non troppo; certo più matura del suo guardiano, ma capace anche di essere ancora bambina tra la vegetazione selvaggia del giardino, così come saprà rivelarsi più adulta dello stesso boss quando infine si adegua al suo mondo di ottusa violenza.
È questa capacità di guardare con lo specifico linguaggio del cinema due esseri umani in formazione, che fa di L’intervallo un film assolutamente da vedere. Purché lo si faccia senza alcuna attesa romanzesca, ma assecondando la sua vera natura stilistica che sta tutta nella capacità di osservare in modo concreto la realtà, sapientemente organizzata come tale, lasciando che sia solo questa a rivelare la propria componente metaforica.
Proprio come accade nei migliori documentari.
(di Aldo Viganò)
L’INTERVALLO
(Italia, 2012)
Regia : Leonardo Di Costanzo
Sceneggiatura: Maurizio Braucci, Mariangela Barbanente, Leonardo Di Costanzo
Fotografia: Luca Bigazzi
Scenografia: Luca Servino
Costumi: Kay Devanthey
Musica: Marco Cappelli
Montaggio: Carlotta Cristiani
Interpreti: Francesca Riso (Veronica), Alessio Gallo (Salvatore), Carmine Paternoster (Bernardino), Salvatore Ruocco (Mimmo), Antonio Buil, Jean Yves Morard.
Distribuzione: Cinecittà Luce
Durata: un’ora e 30 minuti