Con Bad 25 Spike Lee ha fatto a Michael Jackson il regalo più bello. Perché il documentario, che celebra i 25 anni dell’album Bad, lascia da parte tutta la spazzatura che ha ricoperto la vita privata del folletto di Neverland per concentrarsi sul suo genio musicale senza pari e sulla sua straordinaria etica del lavoro. Con una classe, un ritmo interno e una forza emotiva che confermano Lee come uno dei più interessanti documentaristi contemporanei.
Il film, presentato Fuori Concorso a Venezia, si snoda attraverso le diverse canzoni che compongono la track list dell’album: per ognuna il dietro le quinte è estremamente accurato, con immagini rare, dettagli tecnici mai svelati e interviste ai collaboratori del cantante e agli artisti che ne sono stati più influenzati (tra cui Mariah Carey, Sheryl Crow e Cee-Lo Green). Il ritratto che ne esce è completo, affettuoso, divertente. Tra gli interventi più interessanti si colloca quello di Martin Scorsese, regista del cortometraggio che accompagna le musiche della canzone Bad (Jackson, a ragione, non voleva che venisse chiamato semplicemente “video musicale”). Girato in una stazione di Brooklyn con l’esordiente Wesley Snipes nei panni dell’antagonista, venne sceneggiato da Richard Price (Il Colore dei Soldi) con un preciso intento: conciliare la cultura afro di strada con quella più trasversale e pop rappresentata da Jackson.
“Non vorrei passare per stupido”, ha detto Spike Lee a Venezia, “ma Bad 25 per me è come una lettera d’amore a Michael”.
Che cosa rappresenta Michael Jackson nella sua vita?
Sono cresciuto ascoltando la sua musica, sono nato solo un anno prima di lui. Quando cantava con i Jackson Five volevo assomigliargli, copiavo il suo taglio di capelli, ma non potevo certo ballare e cantare al suo livello. Lavorava moltissimo, come tutti i grandi maestri. A sette anni studiava James Brown, Steve Wonder, i Temptations…
Bisogna concentrarsi sul suo genio musicale e lasciare stare tutto il resto.
Durante la lavorazione del film ha scoperto qualcosa di nuovo su di lui?
Ho accettato subito di realizzare questo documentario perché la Sony voleva che mi concentrassi solo sulla musica, sul suo geniale processo creativo. Qui si vedono il sangue, il sudore e le lacrime che stanno dietro a ogni capolavoro. Parlando con i suoi collaboratori si può capire molto di più su di lui. Bad seguiva Thriller, l’album più venduto al mondo, quindi la pressione su Michael era terribile. Voleva che anche Bad vendesse moltissimo e non era mai soddisfatto. Un giorno ha scritto su un foglio: “Bisogna studiare i grandi per essere grandi” . Lui studiava gli artisti più grandi, non solo della musica ma anche della fotografia e della danza, e poi riversava nel suo lavoro ciò che apprendeva. Suonava il pianoforte e sapeva persino concepire tutte le parti strumentali di ogni singola canzone che componeva. Dio gli aveva dato doni che per un bel pezzo non si troveranno in altre persone.
Nel film dà molto spazio al ballo, che era una componente fondamentale in Jackson.
Senza il ballo il film sarebbe stato incompleto, perché Michael viveva per ballare. Abbiamo intervistato i suoi coreografi e abbiamo chiesto loro da dove venissero alcune mosse.
Anche in questo caso sono emersi l’eclettismo e la voglia di imparare di Michael: prendeva spunto dai balli di strada così come dai grandi ballerini del passato. Per esempio la coreografia di Smooth Criminal è un omaggio al Fred Astaire del film The Band Wagon di Vincent Minnelli.
Come ha reagito alla notizia della morte di Jackson?
Semplicemente non potevo crederci. Solo dopo essermi sintonizzato sulla CNN ed aver visto il fratello Germaine che dava l’annuncio ufficiale ho smesso di sperare che fosse l’ennesima bugia sul suo conto. Nei giorni successivi mi ha stupito la profondità del mio sentimento nei suoi confronti. Per un mese ho vissuto in uno stato quasi confusionale…
Mi sono accordo che nell’Ipad avevo un solo album di Michael, così li ho acquistati tutti e per un anno non ho ascoltato altro. Penso che la mia famiglia mi abbia odiato profondamente per questo! (ride)
Il film si conclude con la performance di Man in the Mirror allo stadio di Wembley.
Quando è morto la cantavano tutti, come alla morte di Lennon cantavano Imagine. Ogni volta che Michael interpretava quella canzone sembrava quasi attraversato dalla musica, non faceva già più parte di questo mondo.
(di Maria Francesca Genovese)