Benvenuti al Nord (e alla nuova versione di cinepanettone di classe)


benvenuti al nordPer capire quale si la posizione che occupa un film quale “Benvenuti al Nord” nella classifica del gradimento estetico da parte del pubblico di casa nostra, basta dare un’occhiata ai freddi dati degli incassi ai botteghini: distribuito in più di 800 copie e in programma ormai da due settimane, il film ha rastrellato la bellezza di venti milioni di euro in non più di quindici giorni, riuscendo – nel corso dell’ultimo weekend di gennaio – a vincere la concorrenza anche di rivali pericolosissimi quali gli appena usciti “Mission impossibile – Protocollo fantasma” e Underworld – Il risveglio”, a loro volta sequel di serie molto fortunate presso fasce di pubblico transgenerazionali e adolescenziali. Dati questi che è impossibile trascurare e che meritano di essere analizzati per capire quali siano gli ingredienti del successo di questa nuova versione di commedia all’italiana aggiornata e corretta affinché martelli sulla comicità facile della presa in giro degli stereotipi regionali, dei pregiudizi geografici e sulla sociologia da salotto TV che sorregge l’intero impianto della sceneggiatura.

“Benvenuti al Nord” è il caso più unico che raro del sequel di un remake (e non ci si voglia l’abuso di forestierismi in voga). In principio di tutto c’è infatti “Giù al Nord”, commedia francese di grande successo diretta da Dany Boon nel 2008 e incentrata su un impiegato delle poste spedito nel cupo nord bretone come punizione per aver finto di essere disabile pur di ottenere un agognato trasferimento in Provenza e costretto a ricredersi sui molti pregiudizi che i privilegiati cittadini del soleggiato sud hanno nei confronti dei loro colleghi del brumoso e freddo nord della Francia. Visto l’enorme successo toccato in patria al film e considerato che lo stesso tipo di differenze e di cliché cinematograficamente sfruttabili (ma anche già sfruttatissimi) sono il pane quotidiano da sempre di tanto cinema comico nostrano che ha vissuto per anni sulle macchiette regionali e sugli sfottò tra Nord e Sud conditi a base di pregiudizi e diffidenze ataviche, il regista Luca Miniero e lo sceneggiatore Massimo Gaudioso (suo il complesso e difficile script di “Gomorra”) ebbero l’idea di prelevare in toto il materiale contenuto nella commedia di Dany Boon adattandone gag e scenette alle nostre latitudini, ma limitandosi a un lavoro di mero aggiustamento come se si trattasse di una semplice giustapposizione di figurine svuotate di contenuto a nuove realtà umane e antropologiche. Il risultato fu un inatteso successo, anche perché la maggior parte degli spettatori che lo decretarono non avevano visto l’originale francese e quindi non potevano rendersi conto di quanto la versione italiana del film fosse debitrice a quella d’oltralpe nel suo utilizzare in maniera passiva l’intero impianto comico della sceneggiatura di partenza.

Con “Benvenuti al Nord” si è assistito a qualcosa di inedito, ovvero al seguito di un remake che gli autori del film originale non avevano osato progettare per evitare che la freschezza del loro lungometraggio potesse mostrare la corda dovendo rifriggere gag impostate sulla semplice inversione di ruoli, col nord messo ipoteticamente a confronto con il sud e col ribaltamento dei luoghi comuni usati in “Giù al Nord” per strappare risate di pancia assistite dalla contemporanea riflessione sulla paradossalità del loro perdurare nella coscienza comune di un popolo pur dopo secoli di convivenza civile. Dopo aver rimpiazzato Massimo Gaudioso con Fabio Bonifacci (“Lezioni di cioccolato” ma anche il ben più impegnato “Si può fare”), regista e sceneggiatore hanno ribaltato la situazione di partenza del loro primo film: in crisi con la bella moglie che lo lascia perché è incapace di liberarsi dalla tirannia di mammà e non ha il coraggio di accendere un mutuo per comprare l’agognata casa, il postino guaglione Mattia chiede il trasferimento al Nord finendo con l’essere inevitabilmente assegnato a lavorare nell’ufficio milanese di cui è direttore Alberto Colombo, ora impiegato modello additato dai vertici dell’azienda come esempio da seguire per professionalità ed efficienza dopo il disastroso teatrino della falsa invalidità che gli era costato il trasferimento al sud. Dopo aver giocato per una mezz’ora sui non molti (e già lisi) luoghi comuni e pregiudizi che i “sudisti” avrebbero nel loro modo di vedere il Nord (non viene risparmiato nulla dal freddo alla nebbia, dall’efficienza maniacale al mito della vita di corsa, dai tic linguistici alle abitudini antropologiche), il film inizia ben presto a boccheggiare: il nord si presta meno facilmente a costruire gag incentrate sui pregiudizi regionali, ma soprattutto si fa fatica a ridere di cuore perché molti degli sketch sono riproposizioni di cose già viste sia in pellicole recenti (Checco Zalone docet) che in nobili precedenti di un passato comico ben più illustre (basti pensare a Totò e Peppino nella celeberrima sequenza col vigile di fronte al Duomo in “Totò, Peppino… e la malafemmina”, qui indirettamente citato quando tutto il gruppo degli impiegati di Castellabate approda a Milano per capire cosa sia accaduto a Mattia/Siani). E non è un caso che tutta la seconda parte del film metta in stand by l’armamentario comico costruito sullo scontro tra le due dimensioni geografiche col loro portato sociologico e umano per dare spazio alle stucchevoli vicende matrimoniali di Mattia/Siani e di Colombo/Bisio, ugualmente in crisi con la moglie arpia per il suo eccesso di dedizione alla causa del lavoro ma anche per una serie di goffi equivoci in cui l’amico di Castellabate ha una parte di colpe. Da quel momento in poi, il film perde di vista il suo obiettivo dichiarato, ovvero di sfruttare in senso comico le differenze tra il nord e il sud d’Italia per indurre lo spettatore a riflettere sulla loro assurda inconsistenza inducendolo a un effetto finale catartico grazie al quale dovrebbe sorridere sull’esistenza di vecchi cascami legati a meri pregiudizi che sarebbero facilmente superabili se solo si volesse iniziare a credere in valori più solidi e meno superficiali.

E a riprova di questo adagiarsi su un tema laterale che funziona da mega zeppa su cui l’intera seconda parte del film si appoggia come a una provvida stampella che fa da salvagente narrativo all’incepparsi dei meccanismi del racconto ci sono alcuni elementi inconfutabili: mentre in “Benvenuti al Sud” (pur con tutti i suoi debiti nei confronti dell’originale francese) le vicende familiari erano un contorno folcloristico deputato a buttare benzina sul fuoco nell’ottica degli equivoci culturali e linguistici (la mamma campana che opprime il figlio e gli crea problemi con la procace fidanzata e la moglie bauscia malata di razzismo di marca leghista ma anche di arrivismo sociale causa dell’ansia da trasferimento da parte di Colombo/Bisio e quindi motivo scatenante dell’intero film), in “Benvenuti al Nord” sono proprio le vicende familiari a diventare il perno motore di tutta la seconda parte, relegando a margine tutto il gioco sui confronti socio-culturali tra le due parti del paese. Ma la conferma più inconfutabile arriva da un dato “esterno” non certo irrilevante: una volta usciti dal cinema, ciò che resta maggiormente impresso non è tanto l’inversione dei poli nel percorso di disvelamento dei luoghi comuni e nella scoperta di vera umanità là dove si annidano solo vacui stereotipi, quanto piuttosto due personaggi che sono del tutto estranei al meccanismo comico che dovrebbe alimentare anche questo secondo capitolo della saga, e cioè la suocera da macchietta di Colombo/Bisio (una straordinaria Angela Finocchiaro invecchiata ad arte e capace di rubare la scena a chiunque le graviti attorno nei momenti in cui il suo personaggio si aggira tra le quinte) e l’isterico Direttore generale delle Poste (un non meno formidabile e istrionico Paolo Rossi alle prese con una versione grottesca di manager di stato a metà tra l’arroganza spocchiosa di Marchionne – come testimonia il maglioncino girocollo blu di prammatica – e il ridicolo involontario e grandguignolesco dell’ex-ministro Brunetta).

Chi credeva che il flop ai botteghini dell’ultima infornata di cinepanettoni potesse essere il segnale di un possibile risveglio del cinema italiano che conta in termini economici forse aveva cantato vittoria troppo in fretta: questo secondo capitolo del “volemosebene” nazional-popolare (unito però al fatto che l’altro grande successo del periodo natalizio sia stato “Immaturi – Il viaggio”, a sua volta stanca appendice di un film che era già appassito al suo primo sbocciare) getta lunghe ombre minacciose su nuove possibili involuzioni future, prefigurando scenari inquietanti in cui il cinema di qualità continuerà molto probabilmente a essere relegato a margine e snobbato da quel tipo di pubblico che, educato alla serialità dal modello televisivo, si rivelerà essere sempre più affezionato alla quantità e alla riproposizione di cloni infiniti di originali non particolarmente memorabili (vedasi il pianeta Pieraccioni, vera nave scuola di questo neo-manierismo di ritorno) e che invece ci attendano dolorosi stillicidi di purghe seriali costruite su idee usa e getta.

(di Guido Reverdito)

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