Celeste Alice


alice rohrwacherAll’ottava edizione del Laura Film Festival, svoltasi, quest’anno, tra Levanto e Bonassola, abbiamo incontrato Alice Rohrwacher, la cui opera prima, Corpo Celeste, era presente nella sezione dedicata alla rassegna italiana, ovvero: “al cinema indipendente di qualità”.

Il suo film è stato presentato al Festival di Cannes, alla Quinzaine des realisateurs, dove il pubblico l’ha applaudita con molto calore.
E’ stata una grande felicità perché ho sempre cercato di seguire, anche se da lontano, i film che passavano per la Quinzaine.

Questo presuppone una notevole passione per il cinema.
Sì, anche se la mia passione è iniziata tardi. Vengo da un piccolo paese dove non c‘è una sala cinematografica e da bambina non avevo la possibilità di vedere film. Però ho sempre avuto una grande attenzione per le immagini, per la pittura oltre che per la letteratura. Nel cinema ho trovato il matrimonio tra l’immagine e la storia. Devo molto al Festival di Torino. Andando a studiare in quella città mi sono accreditata al Festival. Ho visto film straordinari, introvabili, ed ho potuto coltivare l’idea che il cinema non sia solo spettacolo ma anche ricerca. E’ forse il Festival a cui sono più legata per la sua linea e il suo proposito. E’ lì che è iniziata la passione e quindi la voglia di entrare in quel tipo di ricerca. Il modo più semplice e immediato è stato il documentario: c’era l’urgenza di raccontare una storia e mettersi in gioco completamente, prendere la telecamera e andare. Attraverso i documentari sono poi arrivata alla finzione.

Per raccontare la sua storia si è servita di un’adolescente, Marta, non più una bambina e non ancora una donna. E’ sembrato che per lei fosse importante sottolineare questa età di confine.
A me interessano molto i momenti di incertezza: l’adolescenza, il passaggio tra la notte e il giorno. Ci vedo una grande fragilità e una possibile apertura, molto più che nella pienezza. Non ho mai avuto interesse per la bellezza nel suo splendore, per la pienezza delle cose nel loro esprimersi. Mi piacciono i boccioli, ciò che deve ancora diventare. Nel film avevo il desiderio di raccontare una formazione, molto selettiva, molto di parte: prendere solo un momento della vita di questa ragazzina, trapiantata in una città che non conosce, in un’età che, proprio perché è un momento di passaggio, presenta un varco e può lasciarci entrare.

La domanda che lei pone è: come si può crescere in un  mondo come questo?
Sì, ho cercato di dire che si deve crescere dentro il mondo e non inseguendo modelli aldilà del mondo, modelli astratti, siano quelli dello spettacolo o di un certo tipo di fede. Volevo che Marta facesse un determinato percorso, che trovasse la sua strada attraverso il mondo e non oltre il mondo.

Da qui la ragione del titolo preso dal libro di Anna Maria Ortese, Corpo Celeste: è la Terra il corpo celeste, un corpo celeste tra corpi celesti.
Bisogna guardare alla Terra come si guarda una stella, con lo stesso stupore e lo stesso desiderio.

Lei è cresciuta in modo laico. La conoscenza del mondo delle parrocchie ha presupposto quindi una ricerca, uno studio.
Sì è un film nato dalla ricerca. Il progetto risale a circa quattro anni fa. Ho frequentato gli ambienti di cui parlo come osservatrice esterna.

E’ stata accusata di aver fatto un film contro l’insegnamento della Chiesa. A me pare che la storia sia pervasa da una religiosità profonda.
E’ così, ma non ho prestato ascolto alle polemiche. Volevo raccontare una realtà completamente di parte, senza essere politicamente corretta. Il fatto che sia di parte fa sì che non ci sia un giudizio, perché dichiaro tutti i miei limiti. Racconto l’esperienza di un alieno che arriva in un luogo e fa una limitata esperienza di vita. Comunque le reazioni sono state opposte, non ci sono posizioni mediane e questa è una cosa positiva. Non si può piacere a tutti, per piacere a tutti  non piacerei a me stessa.

E la scelta di Reggio Calabria?
E’ un grido di dolore per una città che amo. E’ una città molto fragile e penso che ci sia un desiderio di cambiamento. E poi, nonostante i luoghi siano tutti reali – la processione avviene veramente in quel fiume, abbiamo girato ad una settimana di distanza da quella vera – Reggio Calabria è solo un simbolo, la sua realtà potrebbe essere ovunque.

Nonostante la devastazione urbana e morale che emerge dal film, alla fine c’è un cauto ottimismo.
C’è un grande ottimismo, perché esiste un’umanità e la possibilità di relazionarsi faccia a faccia con le cose. Certo c’è molta strada: “Lungo è lo cammino ma grande è la meta“ come dice Brancaleone da Norcia.

Alcuni personaggi sono molto negativi, ma lei ha uno sguardo indulgente. E’ la stessa indulgenza con cui guarda l’umanità?
Mannaggia sì! Perdono tutto anche se poi, a volte, mi pento.

Ha un progetto per il futuro?
Sto scrivendo una sceneggiatura. Il tema è ancora molto vago, comunque sarà una fiction sul cambiamento in atto nel mondo agricolo. Penso che ambienterò la storia nel Centro Italia.

E un film con sua sorella come protagonista?
Se accadesse ne sarei molto contenta, ma non posso saperlo prima, non posso iniziare a costruire il film partendo da un attore. Devo partire da un paesaggio e poi da questo fare un’indagine per arrivare a capire che cosa vi accade dentro. Non posso sapere se lei potrà esserne la protagonista. Nel caso lo fosse sarebbe un grande onore.

(di Antonella Pina)

Postato in Liguria d'essai, Numero 94.

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