Oltre il Confine – Sguardi sul Kosovo, protagonista Giancarlo Bocchi


giancarlo bocchi

Giancarlo Bocchi (foto di S. Bianucci)

Vivere il fronte per la Libertà, la giustizia sociale e la democrazia. Questo è stato il mio conflitto del Kosovo”

La 14° edizione del festival ha voluto riportare i suoi spettatori nella terra del Kosovo degli ultimissimi anni ’90, quando si respirava l’aria di una nuova tragedia annunciata, gravida di misteri e menzogne.

Un panorama fotografato, ripreso, catturato dagli occhi e dall’anima di Giancarlo Bocchi, testimone di quella storia raccontata dal basso e regista di otto documentari e un lungometraggio per il cinema. Un lavoro e un impegno artistico intenso e unico nello scenario internazionale.

I film girati nei Balcani sono stati programmati dai maggiori canali televisivi italiani e hanno ricevuto una serie di riconoscimenti in diversi festival.

Fuga dal Kosovo (Italia, 1999), uscito in seconda serata su RaiDue nel maggio del 1999, mentre era ancora in corso il conflitto, ha realizzato uno dei massimi indici d’ascolto di tutti i tempi in Italia per un documentario, scuotendo le coscienze e mettendo a nudo i limiti della cosiddetta “guerra umanitaria”. Pochi giorni dopo la sua uscita, l’allora Presidente del Consiglio Massimo D’Alema decise di aprire le porte ai profughi Kosovari, che per sfuggire alla guerra e al banditismo albanese erano costretti a rischiare la vita per venire in Italia con gli scafisti, allestendo i campi a Comiso.

Kosovo anno zero (Italia, 1999) fu invece uno dei primi documentari ad uscire in prima serata su RaiTre, mentre in Kosovo, nascita e morte di una nazione (Italia 1998-2006) il regista ha raccontato per primo lo sterminio dei democratici kosovari, degli esponenti della società civile che venivano trucidati per ragioni politiche, sotto gli occhi di migliaia di soldati della Nato, dalle bande estremiste legate all’U.c.k.

Nei Balcani l’autore fece luce anche sulla morte di due italiani: Gabriele Moreno Locatelli assassinato sul ponte Vrbanja di Sarajevo nel 1993 e Francesco Bider, morto nel 1999 dopo essersi arruolato nell’U.c.k. Proprio dopo l’uscita del documentario su Locatelli, Morte di un pacifista (Italia, 1995), la Procura della Repubblica di Brescia aprì un’inchiesta giudiziaria internazionale.

Per il suo lavoro di ricerca e documentazione sui crimini di guerra, Giancarlo Bocchi ha ricevuto alcuni anni fa gli apprezzamenti e i ringraziamenti di Carla del Ponte, all’epoca procuratore e capo del Tribunale Penale Internazionale per l’ex-Jugoslavia.

La tragedia di un intero popolo e le pagine di una storia ingiusta narrate attraverso l’intimità della famiglia Hiseni, vittima di una duplice guerra, quello per fuggire dal Kosovo e arrivare in Italia; vissute nel legame fraterno tra Adem e Cerim sospeso sul ponte del fiume Ibar, confine invalicabile tra le due etnie in guerra e riportate in un mosaico di sette storie dal 1998 al 2000 per tentare di ricomporre il quadro storico, politico e umano che si snoda tra passato e presente, in un intreccio di vicende diverse ma simili, nell’intento di svelare alcuni misteri di un conflitto senza fine.

Cosa l’ha spinto a passare dalla videoarte al documentario bellico?
Vedere che nel mondo accadevano fatti che investivano il destino di milioni di persone. E non ho resisto alla volontà di documentare tali fatti nella loro intimità, nella loro profondità, superando gli schemi e i limiti istituzionali. Ho voluto narrare l’intensità della Storia nella semplicità di un pranzo familiare, di un rapporto fraterno, di quegli elementi del quotidiano che a mio parere, rispetto alle forti immagini che i mass-media ci propongo, restituiscono l’idea della tragedia nella sua più naturale essenza e avvicinando lo spettatore alla più semplice verità.

Con quale attrezzatura e con che modalità ha girato?
Una Sony 1.000 nascosta sotto la giacca. Quando ero li, ho capito di dover mantenere il controllo totale della paura davanti all’interlocutore e di dare fiducia solamente a pochi.

Quale funzione assume il documentario per la storia?
Credo che il documentario sia storia, rappresentando la vita di chi è posto ai margini della società ed è obbligato a tacere e ubbidire alla voce dei grandi dittatori.

Per questo amo ricordare un detto balcanico che dice “ Sotto la verità si nasconde sempre un’altra verità”. La Storia è la scoperta della verità nella quotidianità.

Cosa pensa degli attuali mezzi di comunicazione in merito al caso della Libia?
Ho una pessima idea dell’informazione mediatica in campo bellico. Parlano solo le istituzioni, la politica, la volontà dei potenti.

Cosa significa vivere il fronte?
Sono stato a Sarajevo sette,otto volte per circa sei,sette mesi. Ho incontrato, conosciuto e capito l’animo balcanico. Ho ascoltato e registrato nella memoria di una cassetta e in quella individuale e collettiva la voce silenziosa della guerra.

Ero partito con la mia Uno bianca e il permesso di visitare i monasteri serbo-ortodossi mentre 500 giornalisti si muovevano a fatica fuori dalle porte di Pristina. Ho provato un forte senso di disgusto, quasi la voglia di andarmene per sempre dai Balcani. Pensai per un momento di non tornare mai più in quelle terre martoriate dalla storia. Ma ormai sapevo che mi aspettava un lavoro lungo e difficile. Continuai a seguire il conflitto fino alla fine. E anche a guerra terminata mi son trovato a dover fuggire dagli uomini di Arkan sul passo di Kula, a scivolare via dalle grinfie di contrabbandieri e banditi, a salvarmi dagli scafisti di Valona, a evitare le frequenti imboscate del terribile dopoguerra kosovaro. Ho visto fosse comuni, fattorie ed edifici rasi al suolo dalla Nato, interi villaggi e quartieri incendiati prima dai serbi e poi dall’U.c.k. Ho incontrato persone sopravvissute alle stragi, alle persecuzioni etniche, alle torture, ai rapimenti, agli attentati, ai bombardamenti, alle mine, all’uranio arricchito degli americani.

Sai, forse mi ero salvato da tutta questa inutile mostruosità senza stare né con i serbi né con i kosovari.

Mi sono schierato dalla parte della gente di ogni etnia che combatteva per la libertà, la giustizia sociale e la democrazia.

Questo è stato il mio conflitto del Kosovo. E oggi, al mio ritorno, ho ancora pesanti mattoni sull’anima di chi ha combattuto per e con la voce del popolo, quella piccola voce di tutti che dovrebbe scrivere la Storia dei grandi libri.

(di Chiara Accogli)

Giancarlo Bocchi negli anni ’70 contemporaneamente agli studi di Storia dell’Arte all’Università di Bologna, inizia a lavorare, occupandosi d’arte e musica contemporanea. Conosce Man Ray e molti altri grandi artisti del ‘900 e incontra alcuni importanti intellettuali e filosofi come Jean Baudrillard e Jaques Deridda, fondando una rivista di arte e una seconda di musica. All’inizio degli anni ’80 realizza i primi documentari, lavori di videoarte e videoinstallazioni. Nel 1982 gira il documentario Guerra alla Guerra con Lawrence Ferlinghetti e Allen Ginsberg. Seguono una decina di documentari sull’arte e la cultura tra i quali quelli realizzati con i maestri del Surrealismo Paul Delvaux e Andrè Masson. Nel 1988 riceve il premio per la realizzazione della videoinstallazione L’albero del tempo al Festrio-Festival del Cinema di Rio de Janiero. Dai primi anni ’90, dopo diversi viaggi nella Sarajevo assediata, inizia a girare in solitudine documentari su conflitti, guerre e diritti civili. Nel corso degli ultimi 15 anni ha filmato e scritto di Afghanistan, Birmania, Bosnia, Cecenia, Chiapas, Colombia, Kosovo, Irlanda del Nord, Libano, Palestina, Sahara occidentale, Somalia, Tajikistan.

Fuga dal Kosovo
(Italia, 1999)
Regia, fotografia e suono: Giancarlo Bocchi
Genere: Documentario
Durata: 50 minuti

Kosovo anno zero
(Italia, 1999)
Regia, fotografia e suono: Giancarlo Bocchi
Genere: Documentario
Durata: 50 minuti

Kosovo, nascita e morte di una nazione
(Italia, 1998-2006)
Regia, riprese, suono e montaggio: Giancarlo Bocchi
Genere: Documentario
Durata: 50 minuti

Postato in 14° Genova Film Festival, SC-Festival, Spazio Campus.

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