Intervista agli autori di “Pescoi de Utri. Artigiani del mare”


lampareLa poesia delle immagini, la malinconia del sax, la nostalgia delle voci fuori campo. La magia di una notte di cinema diretto.
Quando si assiste alla nascita di un film e lo si vede portare avanti, stando accanto agli autori, ascoltando i loro dubbi, le loro indecisioni e percependo il loro entusiasmo, risulta poi molto difficile giudicare obiettivamente quel film.

È un po’ quello che ci è successo con Pescoi de utri. Artigiani del mare, documentario su una delle ultime famiglie di pescatori di Voltri, la cooperativa GI.BI, che pratica ancora la tradizionale pesca con la lampara.

Un progetto che in qualche modo abbiamo seguito da quella notte di settembre in cui Stefania Tugliani e Lorenzo Martellacci sono salpati a bordo del peschereccio con una telecamera fino alle ultime fasi di montaggio.

Cercando però di mettere da parte i sentimenti di amicizia che ci legano ai due neo filmaker, riteniamo veramente che il loro mediometraggio sia valido e riuscito, grazie soprattutto alle immagini calde e poetiche, alle musiche malinconiche e nostalgiche e alle voci fuori campo che talvolta sembrano provenire direttamente dalle onde del mare.

L’opera, nei suoi circa 25 minuti di durata narra certamente della pesca, delle sue fasi (dai preparativi per la barca al ritorno in porto), dei sentimenti dei pescatori e dei loro problemi pratici e quotidiani, ma alla fine quello che rimane maggiormente impresso agli spettatori non sono tanto l’illustrazione del lavoro, i sentimenti e i problemi degli “artigiani del mare”, quanto piuttosto il fascino per un tipo di mestiere antico e quasi in via d’estinzione.

Quindi, Pescoi de Utri. Artigiani del mare più che documentare la particolare tipologia di pesca con la lampara, documenta la meraviglia, l’ammirazione e il rispetto che i due giovanissimi autori provano per il lavoro e per le persone riprese, trasmettendo così al pubblico tutta la “magia”, per usare un termine caro alla co-regista, di quella romantica notte.

Il film è in concorso al Genova Film Festival 2011 per la sezione Obiettivo Liguria_Concorso Regionale e verrà proiettato mercoledì 29 giugno alle ore 15.00 presso il Cinema The Space zona Porto Antico.

Proprio in occasione di questo evento, che vede per la prima volta presentare in un festival un lavoro proveniente dal Laboratorio Buster Keaton del Campus di Savona, coordinato dal Prof. Diego Scarponi, abbiamo intervistato i due autori del film scoprendo di non sapere proprio tutto sulla loro esperienza di cinema diretto.

Lasciamo a voi la possibilità di documentarvi e incuriosirvi sulla storia di una passione vissuta dietro l’obiettivo.

A tu per tu con Stefania Tugliani e Lorenzo Martellacci
Genova, giugno 2011

Come è nato il vostro progetto?
S.T. G
razie alla possibilità messa a disposizione dal Laboratorio Buster Keaton che, dopo aver seguito il modulo formativo dell’audiovisivo permette di utilizzare le telecamere e il programma di montaggio Final Cut per produrre propri progetti. Inoltre, conosco la figlia di uno dei pescatori della cooperativa che ci ha introdotti nell’ambiente.

Perché un documentario proprio sui pescatori? Un soggetto premeditato o piuttosto un’occasione da cogliere e approfondire?
L.M.
Il soggetto non l’abbiamo deciso a priori ma è nato appunto dall’occasione che si è presentata grazie a Stefania. Non immaginavamo il risultato dell’esperienza dal momento che nessuno dei due era mai salito prima su un peschereccio.

S.T. Esatto, poteva anche essere un brevissimo spot ma il tutto si è sviluppato dalla voglia di raccontarsi dei pescatori stessi, disponibili e favorevoli all’iniziativa fin da subito.

L.M. E non solo, ci siamo sentiti dei testimoni privilegiati anche grazie alla spazio che ci hanno messo a disposizione. Le prime inquadrature sono state fatte dall’alto, avendoci riservato una postazione tutta per noi nel piano superiore dell’imbarcazione. Un posto strategico che ci permetteva di controllare tutto ciò che accadeva senza intralciare il lavoro. Eravamo nel vivo dell’azione senza essere nel mezzo.

S.T. Poi nel corso della notte, dopo esserci conosciuti, siamo scesi dalla nostra postazione e ci siamo avvicinati sempre più a loro partecipando alle dinamiche di gruppo che si venivano a creare ora dopo ora.

Quindi avete stretto un rapporto con i pescatori sempre più vicino…
L.M.
Si, un rapporto fondamentale coltivato nell’arco di una notte e stretto nei lunghissimi momenti di pausa che l’attività della pesca richiede.
S.T.
In questi momenti, tra il buio e il silenzio, alcuni andavano a dormire e altri parlavano con noi.
È stato uno scambio reciproco di informazioni e sensazioni.

E così avete successivamente intervistato i pescatori…
S.T.
Sì, esatto. È vero, infatti, che durante le riprese ci hanno parlato, ma sempre a telecamera spenta. In quel momento abbiamo capito che c’erano dei discorsi fondamentali che potevano uscire fuori con un’intervista. La prima volta che siamo andati a intervistarli abbiamo parlato con lo zio, l’unica persona che non era sul peschereccio perché ormai anziano. Con lui è nato un discorso nostalgico su com’era la pesca una volta, su i suoi problemi di una volta e sulla grande passione per questo mestiere.

Dopo la voce della memoria, ci serviva qualcuno che invece ci raccontasse del presente, di quello che stava succedendo nelle immagini riprese, quindi siamo ritornati a fare delle altre interviste.

L.M. Sì, come dice Stefania quella dello zio è proprio la voce di un passato che ormai non tornerà, le altre due sono invece molto più attuali e concrete. Inoltre, la prima intervista l’abbiamo fatta con la telecamera, pensando di far vedere il volto dell’intervistato come succede in altri documentari. Poi però ci siamo accorti che era meglio far sentire le loro voci fuori campo per non interrompere le immagini e quindi per la seconda intervista siamo andati solo con il microfono e abbiamo preparato delle domande, risultate poi inutili perché il discorso ha preso altre strade.

Da un punto di vista puramente tecnico come eravate organizzati?
L.M.
Avevamo una telecamera e un cavalletto che poi è rimasto inutilizzato un po’ per il movimento del peschereccio e un po’ per paura che la stessa telecamera potesse cadere in mare!

S.T. Abbiamo realizzato che la ripresa a mano fosse la scelta migliore in quanto il tuo corpo a differenza del cavalletto può controbilanciare l’ondeggiare dell’imbarcazione. Per le interviste abbiamo usato un semplice microfono.

Più volte il vostro film è stato definito un work in progress. Quando avete iniziato a capirne la forma e tratteggiarne lo stile?
S.T.
Non c’è stato un momento preciso. Gli elementi però che hanno contribuito al risultato finale sono stati l’intreccio di diversi fattori: avere un girato di due ore e di immagini che inaspettatamente erano venute bene, immagini forti che non ci saremmo mai immaginati dal momento che è stato il nostro primo lavoro; il forte incoraggiamento del professore che ci spronava a ricercare sempre di più e poi, fondamentale è stata la grande volontà dei pescatori di fare sentire la loro voce, di raccontare le loro storie. Quindi una forma e uno stile non cercati ma incontrati grazie alle vicende e ai personaggi protagonisti del progetto. Un progetto che si è costruito a fasi, di ferma e ripresa. Ne sono esempio le interviste. Avevamo capito quando e come farle solo dopo una prima selezione del materiale, un piccolo “pre-montato” che faceva da tassello al lavoro seguente, che ci portava avanti nell’idea stessa del film.

Quanto è stata difficile la fase di montaggio?
S.T.
Moltissimo. Un po’ perché non avevamo la razionalità di capire cosa tagliare e cosa tenere ragionando solo sulla bellezza delle immagini e dimenticando la loro utilità per il filo del discorso. C’è stato un periodo in cui non le sentivamo più nostre e temevamo di mancare di rispetto ai pescatori tagliando delle parti del loro lavoro.

Volevamo anche dare l’idea dei lunghissimi tempi, inserire nel montaggio i periodi di pausa.

Il momento fondamentale è stato quando dovevamo montare la scena della pesca, più dinamica e complessa. In quell’istante è arrivato Diego (Scarponi), che ci ha dimostrato come riportare dieci minuti di realtà in trenta secondi di film. Da quel momento abbiamo trovato la giusta distanza dalle immagini per poter andare avanti con il lavoro.

In merito al discorso del colore si possono notare contrasti di tonalità molto forti dati anche dalla circostanza del buio. Una scelta voluta quella di non apportare modifiche?
L.M. La verità è che le prime riprese sono state fatte con il bilanciamento del bianco sbagliato. Dopo averle viste ci siamo accorti dell’errore ma non abbiamo voluto correggerle di proposito, quasi per sottolineare attraverso i colori le emozioni di quella sera.

S.T. Si, è stato uno sbaglio in quanto prima esperienza, però è stato quel momento con quel colore.

Com’è stato il lavoro sull’audio?
S.T.
Traumatico. Siamo partiti con il registratore break audio e con l’asta del microfono. Ma sulla barca è stato difficile gestirlo, per questione di spazio e opportunità. Quindi Il sonoro è risultato frammentato e per aggiustare il tutto c’è voluto un lunghissimo lavoro al montaggio.

L.M. Inoltre, attraverso le interviste e le musiche abbiamo cercato di creare un discorso unico, una narrazione sonora che andava dai discorsi nostalgici dello zio a quelli concreti dei pescatori più giovani, una narrazione quindi che sottolineasse, aggiungesse e allo stesso tempo contrastasse in parte le immagini.

Parlateci delle musiche.
L.M.
All’inizio abbiamo inserito la musica Miles Davis, tratta da Ascensore per il patibolo, ma vedevamo che non funzionava del tutto e così abbiamo chiesto a mio cugino Olmo (Martellacci) di comporre le musiche. Visto che avevamo già deciso che la colonna sonora doveva essere jazz, Olmo guardando le immagini ha improvvisato un pezzo col sax.

S.T. Dico sempre che questo lavoro l’abbiamo fatto in tre, in tutto e per tutto, Olmo è stato fondamentale e fantastico perché ha aggiunto il lato poetico al film.

Ma allora più che aggiungere, le musiche sottolineano la poesia che era già presente nelle vostre immagini.
S.T.
Solo in parte, perché l’immagine senza la musica di Olmo non sarebbe stata così poetica. La colonna sonora ha sottolineato e aggiunto allo stesso tempo.

Stefania, tu hai montato il film quasi in contemporanea alla preparazione per la tua tesi sul cinema documentario diretto. Quanto le pellicole viste per la tesi hanno influito sul lavoro?
S.T.
Tantissimo. Però è stato fondamentale anche il corso sulla storia del documentario tenuto da Scarponi, senza quello non avrei saputo neanche come partire. Certo, vedere Pur la suite du monde o le pellicole di De Seta e Grierson mi ha aiutato moltissimo, magari senza che me ne accorgessi nell’istante che riprendevo o montavo, però cerchi in qualche modo di realizzare minimamente quello che hai visto.

Lorenzo, praticamente sei cresciuto a pane e cinema. Quanto la visione delle pellicole viste sino ad oggi ha influenzato il film?
L.M.
Forse principalmente a livello narrativo. Vedere moltissimi film mi ha aiutato a saper raccontare e strutturare una storia. Però bisogna anche essere portati a farlo, guardare film aiuta, ma non basta. Ad esempio, sulla composizione dell’immagine mi trovo più in difficoltà, in questo Stefania è più predisposta. Credo che per quanto mi riguarda continuare a vedere tanti film mi aiuterà a impostare la narrazione, mentre credo che a Stefania servirà più per comporre un’inquadratura.

In quale elemento si potrebbe trarre il messaggio finale del film e della vostra personale esperienza?
L.M.
Per l’esperienza vissuta, il messaggio che vogliamo lasciare ai pescatori è quello di ricambiare la loro fiducia dimostrandoli di trarre un buon lavoro dall’opportunità che ci hanno offerto.

S.T. Per il messaggio finale del film, noi non abbiamo deciso nulla in merito. Ci siamo limitati ad ascoltare e riportare i loro racconti. Sono le stesse voci ad aver deciso il contenuto della narrazione sospeso tra la poesia della pesca e la malinconia del suo futuro, tra le vecchie e le nuove generazioni di pescatori, tra la possibilità di ieri e la difficoltà di oggi di un certo tipo di mercato ittico.

A causa di una frase pronunciata da un pescatore, qualcuno ha visto nel vostro documentario l’aspetto più polemico e critico rispetto a quello più poetico e nostalgico? Cosa rispondete a questa diversa lettura?
S.T.
Partendo dal presupposto che ognuno lo può interpretare un po’ come vuole, se tu guardi questo documentario con delle ideologie di un certo tipo ovviamente si evidenzia il discorso critico dei pescatori sulla chiusura delle tante attività di pesca che per le logiche del mercato attuale non possono più andare avanti. Secondo noi però è una delle tante cose che viene detta, a cui abbiamo dato spazio, ma è solo una frase scelta tra le tante altre, ancora più critiche, che non abbiamo selezionato, perché non avevamo gli strumenti per difenderle e perché saremmo dovuti andare più a fondo, seguendo la linea del reportage, un lavoro completamente diverso da quello che stavamo portando avanti.

Perché un finale così duro e un po’ in contraddizione con la poeticità delle immagini?
L.M.
La scelta del finale fa sempre parte del discorso della narrazione di cui abbiamo parlato prima: siamo partiti dai discorsi romantici dello zio e, man mano che la nave si riavvicinava al porto, abbiamo messo l’accento sui problemi quotidiani dei pescatori, fino ad un finale in effetti piuttosto lapidario, con i camion e l’immagine di una barchetta appesa.

Una critica che si potrebbe fare al film è la poca attenzione data al rapporto tra i pescatori…
S.T.
I momenti sono pochi perché abbiamo iniziato a riprendere il loro rapporto solo quando eravamo sulla via del rientro in porto, dopo aver dialogato con loro a telecamere spente. Quelle scene di socializzazione sono state in realtà una conquista. In una nottata non si poteva riprendere tutto, è stata una questione di mancanza di tempo e di spazio, trovandoci per buona parte delle riprese al piano superiore dell’imbarcazione dietro il vetro di una cabina.

Come vivete la partecipazione al Genova Film Festival?
S.T.
Sarà una grande soddisfazione vedere il nostro primo film sul grande schermo e si spera con un ampio pubblico. Non viviamo il lato competitivo del festival dal momento che conosciamo molti autori dei film selezionati nella stessa nostra categoria.

L.M. La nostra vittoria l’abbiamo ottenuta dal giudizio positivo dato dai pescatori.

Cinema diretto, empatia e magia. Ma cos’è questa magia?
S.T. Vivere un momento della realtà attraverso l’obiettivo della telecamera. Viverlo e vederlo, contemporaneamente.

Sentire l’adrenalina che sale al volere catturare ogni istante diverso dall’altro con la consapevolezza di non poter tornare indietro, di avere un’unica possibilità.

(Chiara Accogli e Juri Saitta)

Pescoi de Utri. Artigiani del mare
(Genova – Italia, 2011)
Regia: Stefania Tugliani, Lorenzo Martellacci
Musica: Olmo Martellacci
Montaggio: Stefania Tugliani, Lorenzo Martellacci
Genere: Documentario
Durata: 25′ minuti

Postato in 14° Genova Film Festival, SC-Festival, Spazio Campus.

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