Intervista a Michelangelo Frammartino

FrammartinoLa bellezza delle immagini, la profondità dei contenuti e soprattutto la continua ricerca di un nuovo e originale linguaggio cinematografico rendono Michelangelo Frammartino uno dei registi più interessanti del panorama italiano di questi ultimi anni.

Nato a Milano nel 1968, l’autore, dopo aver girato diversi cortometraggi e insegnato arti visive, esordisce nel lungometraggio nel 2003 con Il dono, presentato al Festival di Locarno, ma mai uscito nelle sale cinematografiche italiane.

Il successo nazionale e, soprattutto, internazionale arriva nel 2010, con Le quattro volte, proiettato a Cannes nella sezione Quinzaine des réalisateurse successivamente distribuito, se pur con uno scarso numero di copie, anche in Italia.

Il secondo lungometraggio di Frammartino è un documentario astratto e filosofico sul ciclo della vita.

Basato su una struttura narrativa solida e ciclica, praticamente senza dialoghi e con una regia a dir poco rigorosa, Le quattro volte è stato girato in Calabria e vede come protagonisti un pastore, una capra, un albero e del carbone, quindi è un film che parte dall’essere umano e finisce con il minerale, disegnando il percorso dell’esistenza in modo decrescente (quindi non dal minerale all’umano, ma dall’umano al minerale).

Inoltre, l’uomo non è al centro del soggetto del film, ma è al contrario solo uno dei suoi tanti elementi. La pellicola in questo modo comunica e sottolinea allo spettatore che l’essere umano è solo una parte del mondo e del cosmo, di cui fan parte anche vegetali, animali, minerali, ecc.

Altri analisti e spettatori hanno interpretato il documentario in maniera diversa, soffermandosi soprattutto sul luogo geografico in cui tutto è ambientato: un piccolo paesino della Calabria con i suoi rituali e le sue tradizioni.

Probabilmente la pellicola in questione è il frutto di tutti gli elementi sopra citati ed essendo composta praticamente solo da immagini (girate e montate benissimo) si presenta come un’opera totalmente aperta da un punto di vista semantico ed è proprio nella molteplicità delle possibili e svariate interpretazioni che forse risiede la bellezza e la particolarità del film.

Il regista ha ricevuto diversi premi per tale pellicola ed è per questo che cinemaitaliano.info ha voluto consegnarli un riconoscimento speciale al Bellaria Film Festival.

Grazie a questo evento, giovedì 3 giugno l’autore ha incontrato alla rassegna il pubblico presente, parlando del progetto filmico, delle sue problematiche e curiosità.

Per noi è stata un’occasione per fare una breve chiacchierata con il regista, in cui abbiamo discusso del suo secondo film e, più in generale, della situazione attuale del cinema e del documentario italiano.

Le quattro volte ha preso vita da un progetto preciso e dettagliato sin dall’inizio o si potrebbe definire più un work in progress?
C’è un lunghissimo lavoro alla base perché ci sono due anni di osservazione ed è proprio tale sguardo attento e vigile a costituire il vero patrimonio e carburante del film. Quindi in realtà c’è uno spazio limitato all’improvvisazione, se non connesso al fatto di scegliere delle presenze così poco controllabili, ma che io avevo imparato in qualche modo a prevedere; con gli animali per esempio sono stato tantissimo. In realtà è un film da una parte preparatissimo, non scritto, ma molto disegnato, addirittura nel dettaglio, che poi in qualche modo si fa degli scherzi da solo, coniugando la materia dell’improvvisazione con quella preparazione. È un connubio di queste due cose: un grandissimo lavoro e poi delle perdite, anche progressive, del controllo.

La bocca del lupo e Le quattro volte sono due casi di film non unicamente narrativi, molto vicini al documentario, che hanno però avuto una distribuzione, anche se minore, nelle sale cinematografiche. Secondo te questi sono due passi avanti nel panorama della distribuzione cinematografica?
È vero che in realtà sono parecchi anni che i documentaristi stanno facendo sentire la loro voce. Io non mi reputo un documentarista, però quello che so è che autori come Alina Marazzi a Milano, o come Pietro Marcello a Roma, in Campania o a Genova sono veramente l’ossigeno del nostro cinema. Per me La bocca del lupo è il film italiano più bello da molto tempo a questa parte e trovo che il loro cinema abbia influenzato anche gli autori più solidi, più antichi. Penso che il cinema di Bellocchio da questa rinascita del documentario italiano abbia preso degli spunti e del carburante e il fatto che utilizzi sempre di più del materiale di repertorio non credo sia casuale. Per cui, detto che una rinascita c’è stata, probabilmente questi due film“strani” in quanto nati come commistioni e ibridi di stili e generi (fiction e documentario) hanno avuto il merito di portare all’estero tale movimento italiano apportando nuovi spunti e percorsi di ricerca e annullando il primato degli autori di fiction internazionale.

Durante l’incontro con il pubblico hai espressamente dichiarato che il docu-film ha riscosso più successo all’estero rispetto al nostro Paese.

Dove si possono ricercare le motivazioni di tale realtà e in particolare, in quale elemento riscontri la situazione deficitaria italiana?
Il caso curioso è il fatto che il film sia capitato al venditore di diritti internazionali probabilmente più adatto alla tipologia dello stesso film, la CoproductionOffice che l’ha portato in 54 Paesi. In Francia ha registrato risultati quadrupli rispetto all’Italia, in Gran Bretagna ha avuto un’ottima partenza e negli Stati Uniti ha raggiunto una piccola distribuzione che però pare tenga il mercato. La vera svolta d’interesse arriverà quando si conteranno i numeri degli spettatori complessivi al momento dell’uscita del film in almeno metà dei Paesi coinvolti; e questo perché se un prodotto cinematografico privo di dialoghi, attori e musiche dovesse avvicinarsi alle cifre del film italiano di successo allora forse si potrebbe iniziare a pensare a una chiave produttiva internazionale che dia il via a questo particolare tipo di cinema.

L’elemento che vedo porsi alla base dell’insuccesso di un prodotto cinematografico simile al mio, ammettendo i propri limiti e superando i problemi contenutistici e stilistici, si va a delineare nell’informazione dell’esistenza del film. Se fosse pubblicizzato al telegiornale delle 20.30 quando milioni di persone sono sintonizzate sul canale, la settimana seguente moltissimi andrebbero a vederlo nelle sale. Ma allora dovremmo interrogarci sull’esigenza del servizio che va in onda, ossia sulla sua natura promozionale o diversamente critica e quindi sul movente che spinge l’autore del servizio, un movente di natura pubblicistica o personale?

Per spiegarmi meglio, prendiamo il caso de La Bocca del Lupo di Pietro Marcello. Se a mio avviso è il migliore film del panorama italiano da molti anni ma non dispone di una “vetrina” di presentazione al pubblico a differenza dei tanti superficiali, banali, omologati e quasi insignificanti film americani, come può arrivare al grande pubblico? Quindi siamo davanti a uno spettatore non solo non preparato a determinati linguaggi ma neppure informato della loro esistenza. Trenta o venticinque copie vendute in un Paese possono sembrare poche, ma dobbiamo sempre far riferimento a quella piccola porzione di persone informate sull’effettiva presenza del prodotto cinematografico.

Forse non c’ è la voglia di far riflettere…
Più che la voglia credo che non ci sia proprio la precisa volontà. L’immagine in Italia ha da sempre un potere politico molto importante. La storia ci ha insegnato che quest’ultimo e quello delle immagini hanno camminato parallelamente arrivando al capolinea della questione calda dell’immagine. Un’immagine peraltro priva di spessore ma legata ai temi apparentemente innocui dell’intrattenimento. Io non penso che vi sia pigrizia o disinteresse, credo che un certo cinema susciti fastidio e sia meglio che non cresca.

Ma cos’è che infastidisce al punto di omettere l’esistenza di determinati film?
A mio parere è il linguaggio dell’immagine la vera questione. È il tipo di inquadratura, la sua durata, la relazione tra le stesse immagini a tratteggiare le sfumature dei significati in un unico prodotto dirompente che quasi sfiora il limite del film di denuncia.

A volte in una pellicola che tratta argomenti apparentemente banali come delle caprette è proprio il linguaggio a sottolineare il contenuto profondo attraverso la forma. Ho la sensazione che il Cinema italiano, specialmente di sinistra, abbia toccato temi veramente cruciali per la nostra società ma con un linguaggio molto omologato, simile un po’ a una “Penelope cinematografica”, tessendo di giorno e scucendo di notte il lavoro fatto.

La vera partita ce la si gioca sul piano del linguaggio e dell’estetica.

(di Yuri Saitta e Chiara Accogli)

Postato in SC-Interviste, Spazio Campus.

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