Intervista a David O. Russell – Fight the family


David O. RussellDavid O. Russell è un regista che ama mescolare i generi, forzare i registri, ibridare i toni. Amori e disastri (1996) era una farsa on the road, Three Kings (1999) un war movie satirico, I Heart Huckabees (2004) una commedia talmente sgangherata e bizzarra da scomodare, oltre a sonore stroncature, gli epiteti più estrosi. I suoi film sono dominati dal caos e da tensioni sotterranee sempre sul punto di esplodere: intrecci multipli, dialoghi schizzati, gag stranianti, un retrogusto cerebrale e un umorismo molto dark. Lo stesso Russell è un tipo instabile: si è azzuffato con George Clooney sul set di Three Kings e ha strapazzato Lily Tomlin durante le riprese di I Heart Huckabees, una scenata furibonda diventata celebre grazie a un video diffuso su YouTube. La notizia che avrebbe realizzato The Fighter, un lavoro su commissione, un biopic basato sulla storia vera di un pugile minore, Micky Ward, pareva un passo verso la normalizzazione, un ritorno a storie più centrate e tradizionali. E invece anche in questo caso Russell ha sbilanciato la prospettiva e indurito le asprezze dello script d’origine. Più che un classico film sportivo, The Fighter è un family drama survoltato e la famiglia protagonista, i Ward/Eklund di Lowell, un sobborgo operaio di Boston, è una polveriera, un ricettacolo di attriti, derive, affetti, tradimenti, lacerazioni e violenze senza requie. Il “lottatore” del titolo non è Micky e nemmeno suo fratello Dickie, ex pugile e ora trainer strafatto di crack, ma la famiglia stessa, completata da una madre tostissima, padri di sangue o d’adozione e sette soffocanti sorelle. Il problema è che la loro lotta non ha obiettivi di rivalsa o riscatto sociale ma è primitiva, uno scontro autodistruttivo circolare e reiterato: si sopravvive o si affonda tutti insieme “come una vera gang”, suggerisce Russell. Anche stilisticamente The Fighter cela una tramatura complessa e stratificata. II documentario che la rete via cavo Hbo sta realizzando su Dickie, un film nel film, rende il racconto immediato e obliquo, sporco e sofisticato allo stesso tempo, gli incontri di boxe sono riprodotti mimando lo stile televisivo degli anni novanta – video sgranato, colori saturi – e le scene di combattimento, a parte il match decisivo, sono iperrealiste, poco spettacolari e riprese a distanza, da un punto di vista fuori dalle corde, quello dei familiari spettatori. La vera violenza non avviene sul ring ma nell’arena domestica, perché la famiglia protagonista non è disfunzionale ma davvero disturbata anche se capace di amarsi visceralmente. The Fighter non vale tanto come storia di riscatto e redenzione quanto per questa magmatica e intensa texture emotiva, arricchita da interpretazioni magnifiche, ai limiti del virtuosismo.

Il progetto del film ha una storia tormentata, come è finito nelle sue mani?
The Fighter
era un progetto molto caro a Mark Walhberg, che ci ha riconosciuto forti affinità con alcune esperienze personali. Mark è un amico, abbiamo lavorato insieme in Three Kings e Hackabees, e a un certo punto mi ha spedito il copione per chiedermi dei consigli. Il film è passato nelle mani di molti registi fino ad arrivare in quelle di Darren Aronofsky, che però alla fine non ha trovato l’accordo economico e ha rotto con la produzione. Allora Mark, che era molto contento delle nostre chiacchierate, ha proposto me dicendo che condivideva in pieno il mio punto di vista sulla storia. Ho riscritto parte della sceneggiatura nel pieno rispetto del lavoro di Darren, che stimo molto, ma dovevo appropriarmi di quei personaggi. Quando lo ha visto si è congratulato con noi e ha voluto lasciare il suo nome nei credits.

Su cosa è intervenuto in maniera particolare, cosa ha introdotto di nuovo rispetto alla sceneggiatura originaria?
Con Scott Silver abbiamo cercato di sottrarci ai luoghi comuni del film di boxe. Infatti abbiamo spostato maggior peso sui personaggi femminili, che per me sono il vero centro del film al di là della dinamica affettiva tra i due fratelli, che resta importante ma non dominante. Alice, la madre, è un personaggio fantastico, le sette sorelle sono pazzesche. Ho raccontato la storia di una famiglia allargata come se fosse la storia di una gang e sapevo che queste donne incredibili avrebbero dato al film una mescolanza esplosiva di dramma, tragedia e commedia. Con quei capelli assurdi, i modi schietti e il suo sex-appeal distorto, Alice è il capo della gang, gestisce i suoi figli come se fosse un agente senza scrupoli. Li ama e li massacra insieme. Tutta la famiglia è così sincera e viscerale che mi ha ricordato i personaggi di Toro scatenato, si tratta di uomini e donne talmente in bilico emotivo che possono scatenare il dramma in ogni momento.

Una dei punti di forza del film è il realismo dell’ambientazione, può parlarci del suo lavoro su location, casting e recitazione.
Gran parte della vicenda avviene negli anni novanta, abbiamo dovuto condensare le azioni e collassare il tempo del racconto rispetto a tutto quello che succede ai due fratelli. Abbiamo girato in location, Lowell è una midtown che ha una identità molto particolare. I suoi abitanti appartengono alla classe lavoratrice, sono blue collar ma molto orgogliosi della loro identità. Non c’era bisogno di inseguire il realismo, era già tutto lì. È una vera comunità e non succede spesso di trovarne di così coese. Molti hanno origini irlandesi, abbiamo fatto una attenta ricerca sul linguaggio ma più sulle costruzioni linguistiche che sull’accento. Ho pregato gli attori di non esagerare, a partire da Mark, perché forzare il timbro poteva diventare un elemento di distrazione. Molto spesso gli attori scambiano un lavoro virtuoso sull’accento per l’interpretazione. Ma l’esito di una grande performance è l’emozione non la tecnica.

Parliamo dei due protagonisti, Bale e Wahlberg: “sul ring del film” sembrano sfidarsi due tecniche recitative radicalmente opposte.
È vero, Christian è un attore che si prepara metodicamente e si trasforma in una persona completamente diversa, diventa quella persona, perdendo peso, lavorando sulla trasformazione fisica come pochi sanno fare. Mark invece assomiglia di più ad attori come Spencer Tracy, John Garfield o James Cagney, regala qualcosa di intimamente suo a qualsiasi personaggio, qualcosa che appartiene alla sua esperienza. Christian non sai dove sia all’interno del suo personaggio, Mark lo senti che è lì. Ma sono entrambi intensi, sensibili, straordinari,. Nel film sono due muscoli gemelli, tanto Bale spara in alto con Dickie, tanto Mark tiene un profilo bassissimo con Micky. C’è bisogno di entrambi, perché la reazione chimica nasce dalla differenza.

(di Roberto Pisoni)

Postato in Interviste, Numero 92, Registi.

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