Invictus

Il fatto storico o noto a tutti gli appassionati di rugby, e non solo. Tra il 25 maggio e il 24 giugno del 1995, la repubblica del Sud Africa ospitò per la prima volta il campionato del mondo di rugby e, contro tutte le previsioni, lo vinse dopo una memorabile finale, con gli “all blacks” della Nuova Zelanda, conclusasi 15 a 12. Il Sud Africa era passato da poco dall’apartheid alla democrazia e motore di quella vittoria fu Nelson Mandela che, eletto presidente nel maggio dell’anno prima, fece di quella vittoria l’occasione della riconciliazione nazionale e internazionale, dando vita anche a uno dei momenti più emozionanti della storia dello sport, quando, indossando la maglia verde-oro e il cappellino degli “Springboks”, consegnò il trofeo nelle mani del capitano della squadra, l’afrikaner François Pienaar.

E proprio questo fatto è quello che evoca e racconta l’ultimo film di Clint Eastwood, il quale istruisce gli avvenimenti in ordine cronologico, indugiando dapprima con toni quasi documentaristici a introdurre lo spettatore nei fatti della Storia con la esse maiuscola (la diffidenza dell’apparato politico e sociale sudafricano nei confronti di Mandela, il sospetto dei neri nei confronti delle sue aperture ai bianchi “afrikaner”, ecc.) e accennando solo di sfuggita al difficile privato del protagonista (i suoi conflittuali rapporti con la moglie e la figlia, soprattutto), per distendersi poi nella descrizione delle varie tappe che, con l’alleanza tra il nero Mandela (un Morgan Freeman mimeticamente virtuoso) e il bianco François Pienaar (un ottimo Matt Damon), portarono la squadra degli “Springboks” a quella clamorosa vittoria, così gravida di positive conseguenze politico-sociali. Invictus è un film narrativamente compatto e girato con stile virtuoso, che si vede con piacere e si segue con sincera partecipazione ideologica ed emotiva.

A suo discapito, però, giocano, soprattutto nella prima parte, la mancanza di un conflitto drammatico centrale (qualcosa di simile era già accaduto a Eastwood nella seconda parte di Flag of Our Fathers) e l’insistenza a fare di Mandela un simpatico “santino”; mentre, quando l’assunto narrativo imbocca con decisione la strada della conflittualità sportiva, tutto funziona perfettamente in un crescendo cinematografico sempre più trascinante e travolgente. Se questo scompenso strutturale concorre a far collocare Invictus tra le opere minori della straordinaria filmografia dell’ultimo Eastwood, resta il fatto che nello scorrere delle sue limpide immagini ci sono comunque situazioni e momenti il cui il vecchio leone hollywoodiano si esprime ancora al meglio: dal complice rapporto di Mandela con la sua segretaria che lo segue ovunque, al sapiente uso che il film fa delle guardie del corpo del Presidente (neri e bianchi, costretti a lavorare insieme), non solo costruendo nella loro latente conflittualità la sintesi della difficile convivenza di etnie diverse, divise dal colore della pelle e dalla loro storia culturale, ma anche facendo in modo che siano soprattutto i loro sguardi freddi e vigili, rivolti sempre altrove, a fare da controcanto al crescente coinvolgimento emotivo indotto da quello che accade nel campo e sugli spalti.

Invictus
(Invictus, Usa, 2009)
Regia: Clint Eastwood
Sceneggiatura: Anthony Peckham, dal libro di John Carlin
Fotografia: Tom Stern
Musica: Kyle Eastwood e Michael Stevens
Scenografia: James J. Murakami
Costumi: Deborah Hopper
Montaggio: Joel Cox e Gary Roachi.
Interpreti: Morgan Freeman (Nelson Mandela), Matt Damon (François Pienaar), Tony Kgoroge (Jason Tshabalala), Patrick Mofokeng (Linga Moonsamy), Matt Stern (Hendrick Booyens), Etienne Feyder (Julian Lewis Jones), Brenda Maibuko (Adjoa Andoh), Marguerite Wheatley (Nerine), Leleti Khumalo (Mary), Patrick Lyster (Mr. Pienaar), Penny Downie (Mrs. Pienaar).
Distribuzione: Warner Bros. Italia
Durata: due ore e 13 minuti

(di Aldo Viganò)

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