Changeling

Un film semplice, lineare, profondo. Perfetto come sanno esserlo solo i classici. Se è sconfortante ricordare come la giuria di Cannes abbia ignorato l’autoriale rigore di Changeling, preferendogli il vuoto impegno contenutistico di La classe, conforta però constatare che il pubblico (almeno quello cittadino) non si è fatto sfuggire l’occasione di trascorrere almeno due ore in una sala buia in compagnia con il vero cinema. E uscirne finalmente appagato.

Quale vero cinema? Quello in cui il racconto non precede lo scorrere delle immagini, ma sono queste a determinarne il senso; quello nel quale i personaggi vivono autenticamente sullo schermo sintetizzando in sé una precisa personalizzazione dell’esistenza umana; quello dove la scelta delle inquadrature, la loro durata e il loro concatenarsi nel montaggio non hanno mai nulla di casuale o tantomeno di arbitrario. Changeling, cioè. Infatti, l’ultimo film di Clint Eastwood, il quale nel frattempo per nostra fortuna ha già terminato il prossimo (Gran Torino), sintetizza in sé l’essenza stessa di questo cinema, che affonda le radici nella grande tradizione hollywoodiana. È il mondo a 24 fotogrammi al secondo.

È la vita che si fa immagini in movimento, il sentimento e le passioni umane che si cristallizzano sulla pellicola, chiedendo prepotentemente di esistere sul grande schermo. Eppure, la trama raccontata non aveva molto per entusiasmare, tutta raccolta come è intorno alla storia vera di quella giovane madre che (alla vigilia della Grande Depressione) si vede rapire il figlio già grandicello e imporre dalla polizia un ragazzotto alquando diverso; una donna tenace, comunque, che non per questo si arrende e, nonostante sopprusi e violenze, riesce a vincere almeno in parte la sua battaglia, continuando a sperare nel ritrovamento del figlio perduto. Da questo fatto di cronaca, rispettato nella sua collocazione cronologica, il settantotenne Eastwood ha tratto un film grande e universale, emozionante e carico di significati: insieme semplice e profondo. Proprio come si addice ai classici, tra i quali di diritto subito si colloca, in virtù dei risultati ottenuti e non solo per le intenzioni.

Accade così che, nella piccola storia privata di Changeling, si possa trovare condensato tutto il mondo. L’amore materno e l’arroganza del potere rappresentato dai vertici della politica e della polizia. La rappresentazione del dolore (la solitudine della protagonista) e quella della violenza morale (l’imposizione del falso figlio) e fisica (il manicomio e il mattatoio ne deserto). Il caso personale e la sua funzione emblematica per raccontare la Storia. L’orrore per la gratuità egli omicidi e quello per la pena di morte, travestita da giustizia. E l’esempio potrebbero continuare verso l’infinito.

Come infiniti sono i significati di un film, pur semplicissimo da seguire sullo schermo nel suo lineare sviluppo in tre atti: l’attesa e la manifestazione del male, la lotta contro il suo trionfo incondizionato, la vittoria che non cancella la sconfitta, ma neppure la speranza di poter veder sorgere un giorno tempi migliori. Changeling è un film capace di sintetizzare il mito e la vita. Un classico, dunque: messo in scena dal più classico dei registi contemporanei.

Changeling
(Changeling, Usa, 2008)
Regia e musica: Clint Eastwood
Sceneggiatura: J. Michael Straczynski
Fotografia: Tom Stern
Scenografia: James J. Murakami
Costumi: Deborah Hopper
Montaggio: Joel Cox e Gary Roach
Interpreti: Angelina Jolie (Christine Collins), John Malkovich (Rev. Gustav Briegleb), Jeffrey Donovan (capt. J.j. Jones), Devon Conti (Arthur Hutchins), Michael Kelly (detective Lester Ybarra), Pamela Dunlap (Mrs. Fox), Jason Butler Harner (Gordon Northcott), Eddie Alderson (Sanford Clark), Amy Ryan (Carol Dexter).
Distribuzione: Universal Pictures
Durata: due ore e 21 minuti

(di Aldo Viganò)

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