Carlo Lizzani


Carlo LizzaniTutti coloro che hanno lavorato con lui, parlano di Carlo Lizzani come di una persona serena e gentile, sempre capace di mettere a suo agio il proprio interlocutore. La maggior parte di coloro che nel corso di sessant’anni hanno seguito non solo il suo tragitto di sceneggiatore e di regista sempre sospeso tra fiction e documentario, tra cinema e televisione, ma anche la sua intensa attività di saggista e di organizzatore culturale, gli riconoscono soprattutto due virtù strettamente collegate tra di loro: la coerenza nella poliedricità degli interessi e la curiosa disponibilità ad ascoltare le ragioni degli altri. E sono appunto queste virtù che hanno fatto di Lizzani uno dei più apprezzati storici del cinema italiano e forse il migliore e più aperto direttore che la Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia abbia avuto nella sua travagliata storia. Troppo giovane per essere un protagonista di primo piano del neorealismo e troppo vecchio per poter partecipare in prima persona ai fermenti critici ed estetici delle nouvelles vagues degli anni Sessanta, Lizzani è stato comunque un prezioso e rispettato compagno di strada di entrambi i movimenti.

I suoi rapporti con il neorealismo partono da lontano, quando non ancora ventenne entra a far parte della redazione di “Cinema”, si lega d’amicizia con quasi tutti i cineasti della “fronda al fascismo” che intorno a quella rivista ruotavano, vive la stagione della Resistenza al fianco del Partito Comunista, si trasferisce a Milano con Giuseppe De Santis e Massimo Mida per esordire nel mondo del cinema come attore e co-sceneggiatore di Il sole sorge ancora (l’amicizia con De Santis lo vedrà poi lavorare anche in Caccia Tragica e Riso amaro), partecipa con Rossellini all’avventura berlinese di Germania anno zero e passa dietro alla cinepresa con due film (Achtung! Banditi! e Cronaca di poveri amanti) prodotti dall’ex-partigiano Gaetano “Giuliani” De Negri con la formula della sottoscrizione popolare. Mentre le sue sempre ottime relazioni con i giovani emergenti del cinema di regia “all’italiana” e con i più qualificati esponenti della critica post-neorealista, hanno la loro manifestazione pubblica più evidente negli anni in cui Lizzani viene chiamato a dirigere la Mostra di Venezia, tra il 1977 e il 1982, e vuole subito accanto a sé, coinvolgendoli a vari livelli organizzativi, quasi tutti gli operatori culturali della nuova generazione (Enzo Ungari, Adriano Aprà, Giorgio Gosetti, Enrico Magrelli, Tatti Sanguineti, Enrico Ghezzi, Paolo Mereghetti, Marco Muller e altri ancora), che le sue virtù diplomatiche seppero far convivere con i rappresentati più accreditati della tradizione critica nazionale (da Giovanni Grazzini ad Alberto Moravia, da Paolo Valmarana a Roberto Escobar, sino a Morando Morandini), proprio nello stesso modo in cui sullo schermo veneziano in quegli anni egli seppe far coesistere l’“evento” delle dodici puntate di Berlin Alexanderplatz di Fassbinder con quello della riedizione integrale di Ludwig di Visconti, il Leone alla carriera al “vecchio” Kurosawa con quello al “giovane” Godard.

E l’attività di regista? Uomo di cinema sempre più interessato alla cosa rappresentata che alla rappresentazione della cosa, Carlo Lizzani ha saputo passare senza soluzione di continuità dal fare al riflettere sul cinema, dalla analisi delle opere degli altri all’ambizione di raccontare il mondo sul grande o sul piccolo schermo. Qualsiasi cosa egli faccia – critico o regista, saggista o organizzatore culturale, cinema o televisione – quello che gli interessa soprattutto è la trasmissione dell’idee, la organizzazione della realtà entro un sistema di immagini in movimento. Da qui, il suo costante e fondamentalmente indifferenziato interesse per tutti i generi cinematografici. Se Lizzani mette in scena la storia degli uomini (e soprattutto delle donne), questa gli interessa essenzialmente nei suoi rapporti dialettici con la realtà politica e sociale entro la quale si manifesta; se gira un documentario sulla vita in un paese vicino o lontano, su un fatto o un personaggio storico, lo fa sempre andando alla ricerca anche della ricaduta che un paesaggio o un comportamento individuale hanno avuto o possono avere sull’esistenza degli esseri umani. Lo storicismo critico, fa inesorabilmente di Lizzani un regista “all’antica”, ma suggerisce anche la vera ragione della durata nel tempo del suo cinema. Forse nessuno dei molti film – girati tra il 1951 e il 2007 – è veramente memorabile, ma l’insieme della sua filmografia presenta aspetti davvero interessanti, a tratti anche sorprendenti. Forse troppo frettolosamente etichettati come eclettismo. Come lui stesso afferma, a Lizzani non interessa quello che i cinefili chiamano cinema-cinema. Per lui il cinema è essenzialmente un sistema linguistico per raccontare il mondo. Da qui, la sua vorace curiosità che lo porta a viaggiare in tutto il mondo, ma anche a cimentarsi con i più diversi “generi” cinematografici. Ogni viaggio è la scoperta di qualcosa di nuovo: Milano (Il sole sorge ancora) gli rivela l’affascinante legame esistente tra vita e lavoro, Berlino (Germania anno zero) gli fa scoprire – grazie a Rossellini – le capacità conoscitive dell’arte, oltre che la donna che sarà sua compagna per tutta la vita (Edith Bieber), la Cina dove si reca per girare La muraglia cinese lo porta a guardare sempre più criticamente all’esperienza storica comunista, Saigon (Le facce dell’Asia che cambia) lo mette a contatto con la guerra del Vietnam e l’Angola (Africa nera, Africa rossa) gli fa conoscere come ogni dopoguerra abbia in sé qualcosa che è sempre insieme tragico e entusiasmante. E Lizzani ha viaggiato davvero molto nella sua lunga vita, tentato nei primi anni Setttanta da Dino De Laurentis anche alla prospettiva di trasferirsi a vivere negli Stati Uniti (progetto abbandonato “per non perdere le radici”).

Ogni film messo in scena ha rappresentato per lui soprattutto un viaggio nel mondo della conoscenza. Conoscenza del mondo femminile (Cronaca di poveri amanti, Esterina, la Edda di Il processo di Verona, La Celestina con Assia Noris e poi ancora L’amante di Gramigna e Cattiva o la Claretta Petacci di Mussolini ultimo atto o la Maria José di L’ultima regina); conoscenza della storia italiana del Novecento (Fontamara, Il processo di Verona, Achtung! Banditi!, Il gobbo, L’oro di Roma, Mussolini ultimo atto, sino al recentissimo Hotel Meina); conoscenza di personaggi tratti direttamente dalla cronaca (Luciano Lutring in Svegliati e uccidi, il rapinatore ex-comunista Piero Cavallero in Banditi a Milano, il bandito Graziano Mesina in Barbagia, la mamma Ebe del film omonimo dedicato alle imprese truffaldine della “santona” Ebe Giorgini; ma anche conoscenza dei generi cinematografici più disparati: dalla commedia surreale (Lo svitato con Dario Fo), alla commedia all’italiana (Il carabiniere a cavallo), dal western (Un fiume di dollari e Requiescant) al dramma criminale (Banditi a Milano o Torino nera), dal kammerspiel psicologico con o senza terroristi (Kleinhoff Hotel o La casa del tappeto giallo) alla elegante riduzione di opere letterarie (La vita agra da Luciano Branciardi a Fontamara da Ignazio Silone).

Sessant’anni di carriera onorevole. Tanti titoli, tante storie ambientate in luoghi, tempi, realtà sociali anche molto diverse. Decine di film tenuti tutti insieme da una stessa idea di cinema, insieme semplice ed efficace, che affonda le proprie radici nell’humus entro il quale Lizzani si è formato culturalmente (il materialismo storico) ed esteticamente (il neorealismo). Compito della cinepresa ribadisce Lizzani, film dopo film, è essenzialmente quello di guardare la realtà definita dalla storia (sia questa quella con la esse maiuscola o quella inventata da chi ha scritto la sceneggiatura). E, così facendo, esclude da una parte dal proprio orizzonte ogni estetismo, ma dall’altra rivendica al cinema il compito di organizzarla, quella realtà, dandole un ordine e un senso ideologico compiuto, che la curiosità e la gentilezza d’animo di Lizzani non vogliono comunque mai definitivo, bensì sempre disponibile a essere messo in discussione e a confrontarsi con le idee degli altri. E quello che ne sortisce è un cinema sempre onesto e pulito, ideale per discutere e per confrontarsi con la realtà. Un cinema che invita lo spettatore a portare avanti la discussione sugli argomenti affrontati anche dopo che le luci si sono accese in sala: proprio come accadeva nei dibattiti che si facevano una volta e che oggi forse non usano più.

(di Aldo Viganò)

Chi è
Carlo Lizzani nasce a Roma il 3 aprile 1922. Tra il 1940 e il 1943 collabora con le riviste “Cinema” e “Bianco e Nero”. Inizia a fare del cinema nel 1946, collaborando alla sceneggiatura e interpretando il ruolo del prete in Il sole sorge ancora di Aldo Vergano. In seguito, collabora anche con Rossellini (Germania anno zero, 1948) e con De Santis (Caccia tragica, 1947, e Riso amaro, 1949), per esordire nella regia all’età di 29 anni con Achtung! Banditi!, premiato al Festival di Karlovy Vary per la migliore regia. Nel 1952, pubblica il libro Il cinema italiano. Partecipa alla stagione del western spaghetti con lo pseudonimo Lee W. Beaver. Negli anni Settanta dirada l’attività registica per occuparsi di restauro cinematografico, per dirigere – dal 1977 al 1982 – la Mostra di Venezia e per insegnare regia al Centro Sperimentale di Cinematografia (dal 1977 al 1979). Negli anni Novanta ha realizzato numerose fiction per la Rai e qualche documentario, prima di tornare al cinema nel 2007 con Hotel Maina. Nello stesso anno ha ottenuto il Premio Speciale David di Donatello alla carriera. Ha inoltre partecipato alla realizzazione dei film collettivi Togliatti è tornato (1964), Documenti su Giuseppe Pinelli (1970) e, in forma anonima, ai documentari sulla manifestazione della CGIL a Roma (24 marzo 1984) e sui funerali di Enrico Berlinguer. Nel 1981, dirige il Rigoletto all’Arena di Verona e negli anni Novanta cura l’edizione teatrale di due suoi film: Cronache di poveri amanti (1992) e Caro Gorbaciov (1994).

IL CINEMA SECONDO LIZZANI
La mia vita non è stata al servizio del cinema. Mi sono piuttosto servito del cinema per conoscere meglio il mio paese e la sua Storia, avvicinare e provare a comprendere culture lontane, spesso indecifrabili per chi non ha un contatto diretto con gli uomini e le donne che vivono nel quotidiano. Ora, facendo cinema, un certo tipo di cinema, si entra tra le persone, dentro le persone, ci si confonde con loro fino a diventare, oserei dire, invisibili.

Nel mio cinema, la violenza (che non è certo la parte più appariscente della mia personalità) ha avuto sempre un notevole spazio.

Le mie letture preferite sono sempre state la saggistica storica e la memorialistica.

Con il neorealismo, l’inquadratura esplode, deflagra con altrettanta violenza dei contenuti che vi irrompono.

Dopo l’immersione nei drammi di palazzo passati e presenti, covava in me anche la voglia di confrontarmi con tutta la macchina del cinema, con i generi. Sì, proprio quei generi che il cinema neorealista aveva confuso e rivoltato come un vecchio guanto.

Nel Sessantotto, i cineasti stavano diventando un po’ tutti come quei bambini di Giochi proibiti che giocavano con la morte, come il bambino di Germania anno zero che correva tranquillo in mezzo alle macerie, come i bambini di Saigon che si divertivano con i mortaretti sotto il fuoco dei mortai.

Che nostalgia di quella stagione (il neorealismo) d’intenso interscambio tra i linguaggi!

Non c’è miracolo che Hollywood possa fare per risollevare il mercato, nel mondo, laddove una cinematografia nazionale sia debole.

Ho cominciato a fare cinema quando la realtà era un libro aperto, pieno di grandi fatti e di grandi protagonisti, con il male e il bene chiari e divisi in due campi netti. Poi, a poco a poco, tutto è diventato più labirintico,enigmatico, ambiguo. Dietro i fatti e le figure a tutto tondo, si scopre a poco a poco – come nel disegno grosso di un tappeto –che c’è una trama di tanti punti sempre più piccoli e sfuggenti.

Oltre al primato della figura femminile, un altro leitmotiv del mio lavoro è poi certamente quello della fuga versus la morte; la fuga verso un traguardo tragico dei protagonisti o delle protagoniste di tanti miei film.

A livello teorico si è dibattuto a lungo se il cinema fosse o meno un fenomeno d’arte, o quantomeno un linguaggio autonomo. La contesa è stata aspra per decenni. Poi si è passati all’analisi di tipo semiotico, alla ricerca delle unità grammaticali e sintattiche, ai problemi della codificazione o trascrizione in simboli (dal linguaggio alla lingua), trascurando però il fenomeno più macroscopico che avrebbe dovuto essere l’oggetto del primo livello di riflessione e cioè quello, appunto, dell’egemonia – nel nuovo linguaggio – di un solo modello, di un solo autentico “genere”: il film di narrazione.

Forse ho fatto troppi film. Ma non me ne pento. Je ne regrette rien. A volte, anche in qualche film non del tutto riuscito, vedo momenti, sequenze che mi piacciono.

Con alcune sequenze delle mie pellicole potrebbero essere raccontate tante pagine di storia del mio paese, tanti momenti cruciali della nostra vicenda nazionale.

(Dichiarazioni tratte dall’autobiografia di Carlo Lizzani Il mio lungo viaggio nel secolo breve, Einaudi Editore, Torino 2007).

Filmografia
1949: Viaggio al sud (documentario) – Via Emilia Km 147 (documentario)
1950: Nel Mezzogiorno qualcosa è cambiata (documentario) – Modena, città dell’Emilia Rossa (documentario)
1951: Achtung! Banditi!
1952: Ai margini della metropoli (coregia Massimo Mida)
1953: L’amore che si paga (episodio di L’amore in città) – Cronache di poveri amanti – 1954: Siluri umani (non accreditato, regia Antonio Leonviola)
1955: Lo svitato
1958: La muraglia cinese
1959: Esterina
1960: Il gobbo
1961: Il carabiniere a cavallo – L’oro di Roma
1963: Il processo di Verona
1964: La vita agra – La ronda (episodio di Amori pericolosi) – La Celestina P… R…
1965: Guerre segrete (episodio di La guerra segreta) – L’autostrada del Sole (episodio di Thrilling)
1966: Svegliati e uccidi – Un fiume di dollari (con lo pseudonimo di Lee W. Beaver)
1967: Requiescant
1968: L’amante di Gramigna – Banditi a Milano
1969: Barbagia, la società del malessere – L’indifferenza (episodio di Amore e rabbia)
1971: Roma bene
1972: Torino nera
1973: Crazy Joe – Le facce dell’Asia che cambia (documentario)
1974: Mussolini ultimo atto
1975: Storie di vita e di malavita
1976: San Babila ore venti: un delitto inutile – Il pianeta donna (documentario)
1977: Kleinhoff Hotel – Africa nera Africa rossa (documentario)
1980: Fontamara
1982: Venezia (documentario)
1983: La casa del tappeto giallo – C’era una volta un re e il suo popolo (documentario) – Inverno di malato (tv)
1984: Nucleo zero (tv) – L’addio a Enrico Berlinguer (documentario)
1985: Mamma Ebe
1986: Un’isola (tv)
1987: Flumen (documentario) – Emma. Quattro storie di donne (tv)
1988: Assicurazione sulla morte (episodio di Serie noire – tv) – Caro Gorbaciov
1989: La trappola (tv)
1991: Cattiva
1993: Stato di emergenza: Il caso Dozier (tv) – Milano crocevia d’Europa (tv)
1996: Viaggio intorno a Federico II (tv) – Celluloide – Il neorealismo (documentario) 1998: La donna del treno (tv)
1999: Luchino Visconti (documentario)
2000: Roberto Rossellini (documentario)
2001: Maria Josè, l’ultima regina (tv) – Un altro mondo è possibile: Le sfide (documentario)
2003: Cesare Zavattini (documentario)
2004: Le cinque giornate di Milano (tv)
2005: Napoli (documentario, coregia Francesca Pirani)
2007: Agusta-Westland, un primato italiano (documentario) – Hotel Meina – Giuseppe Di Vittorio: ieri e oggi (documentario, coregia Francesca Del Sette

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