Gabriele Salvatores


Gabriele SalvatoresQuando faceva teatro era sovente accusato di guardare troppo al cinema per ricrearne la libertà espressiva; poi, quando è passato dietro alla cinepresa, sono stati in molti a rimproverlo di fare film troppo teatrali, interamente appoggiati sull’interpretazione degli attori. Tutta la carriera di Gabriele Salvatores si è di fatto svolta all’interno della tenaglia di queste critiche convergenti e, nonostante il riconoscimento internazionale suffragato dall’Oscar, egli non deve aver vissuto molto bene questa situazione, se a un certo punto della sua carriera (soprattutto da Nirvana in poi) ha avuto bisogno di buttare all’aria tutto quanto fatto sino ad allora e gettarsi a corpo morto all’interno di una idea totalizzante del cinema che in fin dei conti poco gli appartiene (come dimostrano gli esiti decisamente irrisolti non solo di quel film, ma anche dei seguenti Denti e Amnésia). Ma era proprio di questo bagno nell’assoluto quello di cui egli probabilmente aveva bisogno per riaffermare quella che, in fin dei conti, sembra essere la caratteristica fondamentale del suo rapporto creativo con lo spettacolo (teatrale o cinematografico che sia): vale a dire, una tendenza onnivora dei contenuti come delle forme. Tutte le regie di Salvatores – sia quelle per il palcoscenico, sia quelle per lo schermo – sembrano infatti essere l’espressione di una avventurosa personalità tesa a coniugare la ricerca sperimentale con l’ammiccamento generazionale, l’avanguardia con il popolare, la manifestazione di autentiche istanze personali con la disponibilità ad accogliere al proprio interno alcune componenti che appartengono alla moda del momento. Se questo eclettismo culturale ed espressivo si è rivelato in fin dei conti un’arma vincente sul palcoscenico, connotando stilisticamente tutta l’esperienza del Teatro dell’Elfo anche dopo il suo passaggio a tempo pieno dietro la cinepresa, non eguale esito unitario sembra però essere stato in grado di raggiungere sul grande schermo, al quale ha consegnato,almeno sino ad oggi, una filmografia essenzialmente discontinua, anche se mai banale. Un’opera che, dopo il prologo mediato dal teatro di uno Shakespeare sospeso tra il musical e il rock psichedelico (Sogno di una notte d’estate), ha dato origine a un divenire cadenzato essenzialmente in tre fasi ben distinte tra loro. Una prima (da Kamikazen a Puerto Escondido) in cui i temi dell’amicizia virile e della fuga dal quotidiano si traducono in un cinema in cui l’attore e la situazione valgono sempre più della pregnanza delle immagini che ne raccontano la recitazione e gli sviluppi narrativi. Una seconda (quella aperta da Nirvana, come già citato) che, preparata dalla programmatica staticità di Sud e dalla sua ambizione a proporsi come un “western politico”, avverte continuamente il bisogno di enunciare la propria natura ideologica e programmatica, sia che parli di un viaggio nella realtà virtuale (Nirvana) e dello spazio onirico compreso tra la memoria e il dolore del corpo (Denti) o cerchi in modo alquanto intellettualistico di recuperare i tono della “black comedy” anglosassone (Amnèsia). E, infine, una terza (tuttora in corso) che, appoggiandosi sulle strutture letterarie offertegli da Niccolò Ammaniti (Io non ho paura e Come Dio comanda) sembra soprattutto essere alla ricerca di un equilibrio formale ancora difficile da raggiungere. Con questa sua ansia di essere al passo del divenire, cui si accompagna un’autentica urgenza di rinnovamento, Salvatores è giunto a occupare un ruolo molto personale all’interno del cinema italiano. I suoi film non hanno forse la competenza tecnica di quelli di Tornatore, ma di questi sono sicuramente più vitali; non possiedono il nitore formale di quelli di Muccino, ma ne evitano anche i facili cedimenti alla moda. Sono tasselli di uno stile e di una visione del mondo ancora alla ricerca di se stessi, ma consapevolmente tesi verso una direzione autoriale. E questo non solo per gli esperimenti linguistici che li sottendono, ma anche per i loro rapporti con i generi cinematografici di riferimento. Dietro alla Milano notturna di Kamikazen, al viaggio nel deserto di Marrakech Express, al cechoviano triangolo amoroso di Turné, all’isola circondata dal mare di Mediterraneo o alle avventure esotiche di Puerto Escondido traspare con evidenza la volontà di coniugare le modalità della “commedia all’italiana” con la teatralità espressa da un’affiatata compagnia di attori che, non a caso, fa perno sulla presenza feticcio di Diego Abatantuono. Da aspirante autore, però, Salvatores si appoggia sul genere soprattutto inteso come veicolo narrativo, giungendo a svuotarne completamente il senso e trasportandone l’assunto su un terreno astratto che certo ricorda più Samuel Beckett che Age e Scarpelli. Un terreno che, di fatto, apre la via all’escursione nel mondo fantastico, onirico e orrorifico di quella che si suole definire la seconda fase della sua filmografia, in cui ancora una volta il regista “metteur en scène” cerca di farsi “auteur” appoggiando la propria visione ideologica del mondo su strutture narrative che altri (si pensi ad esempio a Dario Argento) hanno invece saputo eleggere a luogo della forma pura. Come testimonia anche l’apparente classicità di Io non ho paura, Salvatores non ha ancora trovato ciò che testardamente sta cercando almeno da un quarto di secolo. E questo forse anche perché,come molti suoi protagonisti, è proprio lui il primo a non sapere di che cosa veramente va in cerca. Se ogni tanto il suo cinema sembra imbroccare l’aspra strada percorsa dagli autori, altre sembra accontarsi di interpretare (e di far interpretare) al meglio la storia prescelta. Se a sprazzi la composizione delle sue immagini guarda esplicitamente alla sperimentazione di nuove forme (si pensi a Nirvana), può accadere anche che altrove si adatti al calligrafico perbenismo delle immagini patinate care alla pubblicità (si ricordi la corsa nel campo di grano di Io non ho paura). Ma quello che comunque emerge con forza è che Salvatores non è mai un regista riconciliato. Si agita e si rinnova perché vuole fermamente trovare la via giusta per capire il mondo. E questo suo non acquietarsi mai non solo ce lo rende simpatico, ma fa anche sì che ogni uscita di un suo nuovo film sia attesa con fiducia e speranza. “Fusse che fusse la volta buona?” diceva il ciociaro Nino Manfredi, di cui Salvatores è un convinto ammiratore. L’imminente uscita di Come Dio comanda ci darà ancora una volta una risposta.

(di Aldo Viganò)

Chi è
Gabriele Salvatore nasce a Napoli il 20 luglio 1950. Ancora adolescente si trasferisce con la famiglia a Milano, dove studia al liceo Beccaria, per poi frequentare la scuola del Piccolo Teatro di Giorgio Strehler. Nel 1972 è tra i fondatori del Teatro dell’Elfo, dove firma la regia di una ventina di spettacoli, tra i quali Sogno di una notte d’estate, un adattamento musicale della commedia di Shakespeare, con il quale esordisce anche al cinema. È l’inizio del suo distacco dal teatro che, passando attraverso la televisione, la radio e il videoclip, lo conduce a privilegiare ormai il cinema, portandosi dietro molti degli attori che proprio con lui avevano ottenuto successo sul palcoscenico. Se Kamikazen. Ultima notte a Milano è ancora debitore di una precedente esperienza teatrale (Comedians di Trevor Griffith), è con Marrakech Express che Salvatores inizia la ricerca di una propria via autonoma al linguaggio cinematografico, ottenendo ben presto (con Mediterraneo) anche il prestigioso riconoscimento dell’Oscar per il migliore film straniero. A partire da Nirvana, il suo cinema sembra imboccare una svolta indirizzata sempre più alla ricerca. Ha girato numerosi spot pubblicitari (Buitoni, Banca di Roma, Omnitel, Fiat, Lavazza, Tele+, Superenalotto, Alitalia, Tamoil, Birra Moretti) e un pugno di video musicali per Claudio Baglioni (La vita è adesso, 1985), Grazia di Michele (Mama, 1986), Fabrizio De André e Mauro Pagani (Mégu, Mégun, 1990), ancora Fabrizio De André (La domenica delle salme, 1990), Jovanotti, Ligabue e Piero Pelù (Il mio nome è mai più, 1999), la Pfm (Impressioni di settembre, 2005).

DAL TEATRO AL CINEMA
◘ Il teatro è la casa dell’attore e dello spettatore. Credo che in teatro si possa fare uno spettacolo senza la presenza del regista, senza costumi, senza scene, forse anche senza testo, perché ci si può affidare all’improvvisazione. In teatro le uniche cose fondamentali e ineliminabili sono l’attore e il pubblico. Il cinema, viceversa, non si può fare senza il regista, nel senso che è sempre lui a scegliere le cose che tu vedrai e il modo in cui le vedrai. Mentre in teatro lo spettatore ha una maggiore libertà, perché può scegliere nel campo lungo che gli offre la scena cosa privilegiare di volta in volta con lo sguardo; e sarà l’attore a decidere il tempo dei suoi interventi, in modo da focalizzare l’attenzione della platea su una cosa o su un’altra. Credo che la lunga esperienza teatrale mi sia rimasta addosso.

◘ A me piace molto raccontare delle storie, anche se poi magari ci giro intorno, facendo finta di parlare d’altro, di tergiversare. Di conseguenza tutto il cinema di racconto mi entusiasma. So che ci sono due scuole di pensiero molto precise. Io mi iscrivo a quella di chi al cinema ama perdere la coscienza dello spettatore critico. Nel momento in cui sto in una sala cinematografica mi capita un po’ quello che capitava ai prigionieri nella caverna di Platone: ci sono delle ombre sulla parete e si crede che quelle siano la realtà.

◘ Per quanto riguarda il mio cinema ci sono dei film a cui sono particolarmente affezionato, altri meno. Una cosa che però mi capita ogni volta è che vorrei sempre rigirare un mio film nel momento che sta per andare nelle sale.

◘ Il cinema è un lavoro complesso e di gruppo e a me piace che i collaboratori rischino anche loro sul film, nella sceneggiatura, poi nella fase delle riprese, infine in moviola.

◘ Non riesco a girare con degli story board fissi. Faccio sempre molta fatica a seguire degli schemi prefissati e faccio disperare il responsabile degli effetti speciali, che ha assolutamente bisogno di punti certi di riferimento. Per me, invece, è importante avere bene in mente come dovrà essere la scena e poi entrare, con la macchina da presa e gli attori, come in una pista del circo, per fare il nostro numero acrobatico. Spesso si tratta veramente di improvvisare con gli attori e con la macchina da presa. Il risultato è che quasi sempre ogni ciak è diverso dall’altro. La cosa più importante per me è comunque cogliere la verità del momento.

◘ Quello che mi interessa di più, da un po’ di tempo a questa parte, è il cinema che prova a filmare l’invisibile, di mostrare quello che normalmente non è dato vedere. Perché, viceversa, quello che si può vedere comunemente ci pensa già la televisione a rimandarcelo in maniera massiccia ed efficace, anche dal punto di vista delle emozioni. Allora il cinema deve riappropriarsi della sua dimensione più poetica. Deve diventare poesia rispetto al romanzo, dove il romanzo sono evidentemente i media, la comunicazione, la cronaca giornalistica. Il cinema, una volta, aveva anche il compito di far vedere il mondo, adesso non più. Allora il nuovo compito dovrebbe essere di far vedere quello che non è facile vedere.

◘ Odio il minimalismo. Penso che al cinema debbano essere raccontati fatti eccezionali che valgano davvero la pena di essere raccontati perché magari non si ripeteranno più.

◘ Le nostre radici sono il neorealismo e la commedia all’italiana, che è figlia del neorealismo e che sento molto vicina alla mia esigenza di parlare a un pubblico più vasto possibile.

◘ Io non posso decidere di mettere la macchina da presa storta solo per il gusto di fare una cosa strana. Penso che sia la storia a suggerire uno stile.

Le dichiarazioni di Gabriele Salvatores Olmi sono tratte da sue interviste rilasciate nel corso degli anni, e pubblicate in Cinecritica n.17 e nelle monografie di Raffaella Grassi (Territori di fuga. Il cinema di Gabriele Salvatores, edizioni Falsopiano) e di Luca Malavasi (Gabriele Salvatores, edizioni Il Castoro Cinema).

Filmografia
Lungometraggi
1983:
Sogno di una notte d’estate
1987: Kamikazen. Ultima notte a Milano
1989: Marrakech Express
1990: Turné
1991: Mediterraneo
1992: Puerto Escondido
1993: Sud
1997: Nirvana
2000: Denti
2002: Amnesia
2003: Io non ho paura
2005: Quo vadis, Baby?
2008: Petites histoires das Crianças (documentario, coregia Guido Lazzarini) – Come Dio comanda (uscita prevista a dicembre)

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