“Biancaneve”, di Tarsem Singh

biancaneveProbabilmente è una delle fiabe più note al mondo. Non deve quindi stupire che sia anche una delle più adattate al cinema. Se infatti a tutti viene subito in mente il capolavoro che Disney creò nel lontano 1937 (“Biancaneve e i sette nani” fu infatti il primo film di animazione della casa di Topolino, ma anche il primo degli Oscar conquistati negli anni), non sono però in molti quelli in grado di citare alcune delle moltissime trasposizioni cinematografiche che, sin dall’epoca del film muto, cinema e TV si sono affannati a sfornare. Una popolarità tale da non risparmiare nemmeno fumetto, graphic novel e degenerazioni nei territori del porno (ovviamente agevolato dalla presenza dei sette nani, troppo vivi in un certo immaginario collettivo sporcaccione per essere risparmiati da questo tipo di forzature da caserma).

Ma era difficile immaginare che a offrire una nuova lettura della fiaba dei fratelli Grimm fosse un regista indiano diventato celebre per la sua visionarietà di autore di video di culto (suo quello celeberrimo di “Loosing my Religion” dei R:E:M), ma anche di film non meno prepotenti e bizzarri a livello di cura maniacale dell’immagine quali “The Cell”, “The Fall” e il recente “The Immortals”.

Partendo dallo schema narrativo di base della fiaba, Singh lo ha adattato ai tempi meschini che ci tocca vivere, attualizzandone alcune componenti narrative per farne una storia in linea con le frenesie e le ansie che inquinano la stabilità del nostro scenario esistenziale. La matrigna non è più soltanto l’incarnazione malvagia della cattiveria femminile che si scatena sulla figliastra relegandola in un’ala secondaria della propria residenza perché ne invidia la bellezza fresca e cerca di sopperire al passaggio del tempo facendo ricorso alle arti magiche (vedi il noto “specchio delle mie brame”). Vittima di tempi in cui la bellezza è sofferenza e competizione per emergere in mezzo a una massa di cloni da palestra, la Regina di Singh è ossessionata dal rischio che la propria bellezza un tempo sfolgorante possa sfiorire: per questo si sottopone a trattamenti da beauty farm giurassica con sanguisughe e altri graziosi animaletti che la tengono in forma in un versione incubo di salone estetico che potrebbe essere gestito da Tim Burton. E il suo rapporto con la figliastra è tutto giocato da una parte sulla competizione di bellezza e dall’altro su quello del confronto generazionale. Ma non tanto a livello di madre/figlia, quanto tra quarantenni rampanti e ventenni ansiose di spodestarle.

In tempi di crisi anche la molla delle recessione fa però capolino tra le pieghe della trama: la Regina vessa i suoi sudditi con tasse sproporzionate che affliggono la classe operaia (relegata all’inferno e senza sconti su una possibile ascesa in Paradiso) e la media borghesia per permettere all’aristocrazia del censo di vivere nel lusso sfrenato. I sette nani non sono più dei buffi minatori in scala ridotta che – come in Disney e dintorni – cercano di sbarcare il lunario sgobbando nei meandri tetri di una miniera da pre-rivoluzione industriale: il film di Singh li aggiorna sintonizzandoli sulla lunghezza d’onda dei furbetti del quartierino ma anche sulle baby-gang che la risacca sudamericana abbandona sui litorali dell’Occidente: veri nani in carne ed ossa, i sette sono diventati dei ladruncoli che assaltano la gente nel cuore del bosco in cui vivono e si guadagnano da vivere terrorizzando i malcapitati che passano da quelle parti saltellando su trampoli a soffietto che li fanno sembrare minacciosi giganti molleggiati.

Le figure femminili dominano incontrastate in una sorta di trionfo di revanchismo post-femminista che ha il coraggio di marginalizzare il Principe Azzurro riducendolo al ruolo di mollaccione passivo conteso dalle due donne in gara (di bellezza ma soprattutto di colpi bassi) e privandolo del ruolo decisivo che aveva nella fiaba. Lo scontro matrigna-figliastra è però solo in apparenza un ruvido incontro di wrestling generazionale senza esclusione di colpi: ciò che conta di più è la centralità assoluta dei due personaggi, che dominano la scena in maniera incontrastata. Come se si volesse far capire che una volta – quando le fiabe erano il solo Baedeker disponibile per decifrare l’assurdità del vivere – l’invidia per la bellezza altrui e il terrore per lo sfiorire della propria potessero essere il vero motore del mondo. Mentre ciò che oggi conta davvero è l’affermazione individuale, la capacità di attirare il maschio con l’arte della seduzione, ma anche quella di potersi sentire giovani e padrone dell’universo (come la Regina) anche quando a permetterlo sono la cosmesi (qui magia nerissima con punizione finale) e la fiducia in se stesse. Non è un caso che la nuova Biancaneve non abbia infatti nulla della remissiva fanciulla della fiaba o del candore disneyano cui eravamo abituati: qui la ragazza è una che mena le mani e non ha paura di sfidare a duello anche i mostri dell’immaginario pur di affermare la propria individualità e conquistarsi l’uomo che ama.

Il film di Singh è coloratissimo nei costumi fastosi dell’ugualmente immaginifica Eiko Ishioka (premio Oscar per “Dracula”) che, morta di recente, viene qui ricordata come dedicataria dell’intera operazione. Ma allo stesso tempo risulta anche un po’ cupo nelle scenografie sinistre del bosco in cui volteggiano molleggiati i sette nani e nella laguna incantata e alquanto dark dove la Regina va a consultare un inquietante marchingegno che si scopre essere lo specchio delle sue brame (non a caso il titolo originale del film era proprio “Mirror, mirror…”). E se la bizzarria della rilettura della fiaba di cui si diceva non bastasse a disorientare comunque positivamente lo spettatore anche più attrezzato alle sorprese, il resto lo farebbe la scena finale del matrimonio-celebrazione tra Biancaneve e lo spentissimo Principe Azzurro: quando nessuno se lo potrebbe aspettare, Singh si lascia scappare una straordinaria scena da ballo in tipico stile Bollywood con gli invitati che roteano all’unisono le teste in un tripudio collettivo di musiche e colori sgargianti da sposalizio indù.

Si è talmente sopraffatti da questa ondata di spunti ed eresie visive che il motivo per cui il film è stato strombazzato come un evento cinematografico senza precedenti (ovvero il fatto che Julia Roberts, la diva dal sorriso che acceca e conquista più di quello della modella della Pasta del Capitano, sia qui impegnata per la prima volta in un ruolo da cattiva assoluta) passa rapidamente in secondo piano: brava com’è in ogni cosa che ha fatto sul grande schermo, la Roberts fa il suo nel disegnare una Regina animata da una vis malvagia senza precedenti al cinema, offuscando con la ferocia dello sguardo la bellezza falsamente acqua e sapone di Lily Collins, figlia del mitico Genesis Phil ma incapace di opporsi con una bellezza algida e perfetta alla marginalità cui il titolo originale la relega senza prove d’appello.

(di Guido Reverdito)

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