di Renato Venturelli.
Action e cinema processuale, tutto insieme, alternando le scene dialogate in tribunale con i pestaggi all’aria aperta o in metropolitana. E pure a partire da una storia vera, avvenuta – pare – nel 2016, quando un ragazzo finì in carcere per aver “prestato” il proprio indirizzo a un trafficante di droga, mentre quest’ultimo la faceva franca. Ma per riuscire a rendere credibile un mix del genere ci voleva una personalità particolarmente forte: quella di Donnie Yen, regista e interprete, con l’aiuto del fidato Ouchi Takahito per le scene d’azione.
La vicenda è del resto già paradossale in sé. Il personaggio di Donnie Yen è infatti un ex-poliziotto, diventato pubblico ministero della procura di Hong Kong, ma rimasto sempre fedele al principio di difendere ad ogni costo gli innocenti e perseguire i colpevoli al di là dei dettagli processuali. E così, quando scopre che un ragazzo si è dichiarato colpevole ed è stato condannato a una pena pesantissima, pur avendo semplicemente permesso a un amico di consegnare al suo indirizzo un pacco contenente droga, sente puzza di bruciato. Tanto più che il vero trafficante è uscito pulito dal processo. E a quel punto comincia a indagare, imbattendosi in ostacoli sempre maggiori. Fino a dove arrivano le colpe degli avvocati difensori, che hanno spinto il ragazzo ad accusarsi facendolo così condannare, mentre il colpevole la faceva franca? Ed esiste una corruzione infiltrata anche all’interno di palazzo di giustizia, visto che ai superiori non sembra importar nulla e addirittura rispondono che la giustizia va così, a volte i colpevoli vengono assolti e a volte gli innocenti finiscono condannati…
Sul versante processuale, il film ha le sue scene canoniche fondate su classicissimi dialoghi, interrogatori e dibattiti in aula. Ma con un paradosso sempre più evidente: quello di un pubblico ministero che si mette di traverso e si prodiga per far scagionare l’imputato anziché farlo condannare. Inevitabile che un vecchio giudice lo maltratti e che i superiori la prendano male.
Il grosso però avviene lontano dal tribunale, perché è lì che Donnie Yen può scatenarsi in una serie di scene action furibonde, pestaggi, inseguimenti sui tetti e uno strepitoso combattimento lungo tutti i vagoni della metropolitana, con un uso cromatico particolarmente efficace dei rossi degli appigli. Riuscendo là dove può osare solo il cinema: rendere accettabile sullo schermo un mix di generi e di provocazioni che sarebbe in sé poco credibile sulla carta.