Adana International Film Festival 2018 – Vincono “Sibel” e “Burning”

di Massimo Lechi.

Al venticinquesimo Adana International Film Festival (22 – 30 settembre 2018) hanno trionfato Sibel e Burning, e non è stata certo una sorpresa. Tanti i film di buon livello nelle due competizioni – nazionale e internazionale – di quello che da sempre, insieme a Istanbul e Antalya, è uno dei tre principali eventi cinematografici  della Turchia. Ma pochi i titoli davvero in grado di mettere d’accordo giurie inevitabilmente eterogenee.

Alla fine, la favola femminista Sibel di Guillaume Giovanetti e Çagla Zencirci – un prodotto ben rappresentativo dei tempi e dell’attuale industria delle coproduzioni selvagge – con tre riconoscimenti (tra cui miglior film) ha avuto la meglio su Butterflies di Tolga Karaçelik e The Announcement di Mahmut Fazil Coskun, anch’essi film concepiti in tutta evidenza con un occhio all’estero e al circuito festivaliero europeo.

Nel concorso internazionale, il secondo nella storia di Adana, curato ancora una volta in prima persona dal critico Kerem Akça, a spuntarla è stato invece Burning, l’ultimo attesissimo film del grande Lee Chang-dong, un’affascinante esplorazione del desiderio e dei conflitti di classe nella Corea del Sud contemporanea, liberamente ispirata a un racconto di Haruki Murakami. Notevole però, per qualità e spessore, la lista degli altri registi in gara per il Golden Boll: Radu Jude (I Do Not Care If We Go Down in History as Barbarians, menzione speciale), Olivier Assayas (Non-Fiction), Jia Zhangke (Ash Is Purest White), Philip Gröning (My Brother’s Name is Robert and He is an Idiot ).

Tutti nomi di peso, che quest’anno hanno contribuito a sostenere la reputazione di un festival che, dopo aver assorbito il meglio del cinema nazionale a causa della tormenta politica abbattutasi su Antalya, punta adesso ad aprirsi al resto del mondo.

Di seguito alcune considerazioni sui principali film della competizione turca, in attesa di possibili – e auspicabili – distribuzioni italiane.

 

Brothers (Kardesler) di Ömür Atay

Già in concorso all’ultimo festival di Karlovy Vary, dove ottenne buone recensioni ma nessun riconoscimento, l’opera prima di Ömür Atay è un solido dramma sociale incentrato sul complesso rapporto di amore e odio che lega due fratelli, Yusuf (Yiğit Ege Yazar) e Ramazan (Caner Şahin). Il primo, diciassettenne introverso e sensibile, dopo aver scontato quattro anni in un carcere minorile ad Ankara, ritrova la libertà e viene affidato al secondo, giovane ambizioso ma debole, messo dalla famiglia a gestire l’ampio giro d’affari di una stazione di servizio nell’interno della Turchia. Tra di loro – si scopre dopo poche scene improntate a un naturalismo tanto di maniera quanto efficace – vi è però un segreto inconfessabile: il tremendo crimine per il quale Yusuf ha sacrificato la propria giovinezza, ovvero l’uccisione della sorella fuggita dal clan con il fidanzato, è stato in realtà commesso da Ramazan, sobillato da quella stessa opprimente e minacciosa famiglia che ha poi deciso di salvarlo per calcolo e interesse. La comparsa di una ragazza in difficoltà (Gözde Mutluer) fa precipitare la situazione, forzando Yusuf a prendere una decisione radicale.

Colpa, desiderio, rancore, vendetta: Brothers si nutre di temi e sentimenti elementari e, con la forza degli stereotipi e di una messinscena convenzionale, sferra un salutare attacco al patriarcato e alle storture della società turca. Dopo l’inevitabile resa dei conti e il crudo finale, resta un genuino senso di amarezza.

Premio ex aequo per la miglior interpretazione maschile e per la miglior rivelazione femminile.

 

Butterflies (Kelebekler) di Tolga Karaçelik

Un road movie con protagonisti tre fratelli – un astronauta apprensivo (Tolga Tekin), un attore fallito (Bartu Küçükçaglayan) e una depressa in crisi matrimoniale (Tugce Altug) – che non si conoscono e non si amano, ma che accettano di attraversare la Turchia in macchina per incontrare il padre che non vedono da trent’anni. Il viaggio diventa così un’occasione irripetibile per riavvicinarsi e per sciogliere finalmente alcuni nodi legati a un passato familiare infelice e a una tragedia troppo a lungo rimossa.

Tolga Karaçelik fonde commedia e dramma, cambiando spesso bruscamente registro e inserendo più di un elemento farsesco in un quadro dominato dalla leggerezza e da uno sguardo dolceamaro sui conflitti interiori di un trio di protagonisti svalvolati. Non tutto funziona, certo, ma alcune trovate – specie quelle più sopra le righe – sono notevoli, a cominciare dagli indimenticabili polli esplosivi che seminano il panico per le sonnacchiose vie del villaggio di famiglia.

Miglior regia, miglior sceneggiatura e premio del pubblico: Butterflies ha insomma replicato ad Adana gli exploit compiuti ai festival di Ankara, di Istanbul e – prima ancora – di Sundance, confermandosi uno dei titoli turchi più amati dell’anno.

 

Home (Yuva) di Emre Yeksan

Presentato a Venezia nell’ambito di Biennale College, Home ha certificato il talento di Emre Yeksan, cineasta trentenne apprezzato – finora – più dalla stampa internazionale che da quella del suo paese d’origine. La sostanziale incomprensione del suo lavoro da parte dei critici turchi non è dovuta tanto a un generico fraintendimento ma, con ogni probabilità, a ragioni di natura stilistica e drammaturgica: Yeksan, banalmente, non gira e non scrive come un filmmaker turco.  Con lui vengono meno troppi stereotipi comunemente spacciati per elementi di riconoscibilità di un’intera cinematografia.

Lo si era già notato in The Gulf (Körfez), in concorso alla SIC veneziana appena un anno fa: un impietoso affresco del declino economico e morale della borghesia nell’era di Erdoğan, infarcito di metafore (il fango e il fetore che avvolge la Smirne nella quale vagava il giovane sbigottito protagonista), invenzioni visive (la sequenza dell’ingorgo stradale) e sotto-trame a metà tra il distopico e il naïf (la comune di reietti). Ma soprattutto un film che dimostrava lo sforzo di distanziarsi dal realismo di tanto cinema turco. Distacco che, non a caso, qui si fa ancora più marcato. Favola ecologica dalle spiazzanti atmosfere oniriche, con protagonisti due fratelli in una foresta vergine minacciata da una misteriosa forza esterna, Home si fa infatti ammirare per una coraggiosa – seppur, va detto, un po’ discontinua – regia che ricorre a lenti zoom e morbide dissolvenze per rappresentare lo smarrimento dell’uomo contemporaneo.

Nessun premio dalla giuria, ça va sans dire.

 

Sibel di Guillaume Giovanetti e Çagla Zencirci

Il grande vincitore di quest’edizione è un appassionato ritratto di donna combattente giunto ad Adana dopo aver mietuto consensi a Locarno, in agosto. La Sibel del titolo è una ragazza muta (Damla Sönmez, premio per la miglior interpretazione femminile) che vive in uno sperduto villaggio tra le montagne comunicando con il burbero padre tradizionalista (Emin Gürsoy, miglior attore non protagonista) e l’invidiosa sorella minore attraverso un’antica lingua fatta interamente di fischi – non troppo dissimili dai richiami per uccelli. La sua vita è divisa tra la cura della casa paterna, il lavoro nei campi e la caccia al lupo – probabilmente immaginario – che infesta i boschi in cui è cresciuta. Una routine interrotta però all’improvviso dall’irruzione in scena di un fuggitivo di bell’aspetto e con una vistosa ferita.

Bastano la descrizione del personaggio principale e un breve accenno al soggetto per comprendere come Sibel sia di fatto una favola, un racconto di formazione che, con astuzia, fonde elementi fantastici con la critica sociale. Il classico prodotto cinematografico d’esportazione, in stile Mustang (film che tanto aveva fatto arrabbiare la parte più smaliziata della critica turca), con tutti gli ingredienti giusti per sfondare in Europa e in America: una sceneggiatura che aggira – quando serve – la verosimiglianza rifugiandosi nel fiabesco, una messinscena caratterizzata da un realismo anodino e non compromettente, attori in gran forma capaci di riscattare personaggi volutamente ridotti a mere funzioni narrative, ma soprattutto tanti stereotipi sulla Turchia, sulle sue dinamiche sociali e sulle sue tare ataviche. La ricetta per il successo.

 

The Announcement (Anons) di Mahmut Fazil Coskun

Con il premio speciale della giuria nella competizione internazionale e il premio Yılmaz Güney (il secondo in ordine di importanza) in quella turca, il terzo film di Mahmut Fazil Coskun si è confermato, a pochi giorni dalla presentazione in anteprima mondiale a Venezia, un’opera in grado di parlare a platee vastissime.

Merito soprattutto dello stile impassibile alla Kaurismäki con cui il regista e sceneggiatore ha congelato cinematograficamente le ridicole peripezie di un gruppo di laconici ex ufficiali che si ritrovano a dover dare l’annuncio via radio di un colpo di stato militare in una sfortunata notte del 1963. Grande cura nel décor, un’ottima fotografia del talentuoso operatore bulgaro Krum Rodriguez, una sceneggiatura precisa con dialoghi disseminati di freddure e una serie di facce  esilaranti, The Announcement ha una carrozzeria sufficientemente levigata e scintillante per attrarre lo spettatore europeo e una quantità di cinici inside joke adeguata all’intrattenimento del pubblico turco.

Un trionfo annunciato. Appunto.

 

 

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