Brian De Palma al TFF: rassegna e libro

di Renato Venturelli.

Dopo le retrospettive dedicate a Carpenter e Romero, Walter Hill e Landis, Milius e Friedkin, il TFF affronta nell’edizione 2017 quella che sotto molti aspetti è la figura più centrale nel cinema americano tra anni ’70 e ’80: Brian De Palma, finalmente prossimo all’uscita di un suo nuovo film (Domino) dopo averne incredibilmente diretto uno solo (Passion) negli ultimi dieci anni. Una rassegna praticamente completa, anche se la mancanza di alcuni corti giovanili e Il falò delle vanità proiettato in copia sottotitolata in finlandese fanno intuire le difficoltà incontrate.

Ufficialmente, è l’occasione buona per permettere agli spettatori più giovani di vedere tutto De Palma su grande schermo; ma è anche un’occasione per rifare i conti con un regista che ha avuto e continua ad avere letture di vario tipo, a partire da quella prevalentemente metalinguistica che aveva prevalso nei primi tempi. Di certo, il lavoro di De Palma si presenta innanzitutto come una gigantesca riflessione sull’immagine, il suo fascino e il suo inganno, che parte dalle radici sperimentali e underground del regista innervandosi poi nella più profonda tradizione del grande cinema americano.

Nel volume che accompagna la rassegna (Brian De Palma, Il Castoro, Milano 2017, pp.158), la curatrice Emanuele Martini riporta anche una frase illuminante del regista, che ha da sempre sollevato anche discussioni a proposito del modo in cui intendere il suo “virtuosismo”, degli eterni equivoci circa il citazionismo, o delle pretese costrizioni del suo muoversi all’interno dei generi anziché “liberarsi” in una scrittura più sperimentale. “Da un punto di vista intellettuale – disse De Palma ai Cahiers nel 1982 – quello che ha fatto Godard è notevole; lui è un po’ come Ejzenštejn. Certi suoi film sono meravigliosi, ma io, a casa, non guardo i film di Ejzenštejn. Preferisco Howard Hawks. Si tratta sempre della lotta tra il genio, l’innovazione stilistica e le forme essenziali della narrazione cinematografica che, devo dire, mi sembrano più durevoli (…) Hitchcock non lascia mai che lo stile prenda il sopravvento sul fine ultimo del film”.

Oltre all’introduzione di Emanuela Martini, che con la consueta chiarezza fa il punto su una serie di nodi critici fondamentali, il volume comprende articoli di Roberto Nepoti sul rapporto di De Palma con Nouvelle Vague e New American Cinema (“si direbbe che egli avverta la ‘storia’ da raccontare come una costrizione, un pre-testo, ansioso di tornare a dirigere film più disnarrativi e liberi, più apertamente citazionisti: come ai  tempi del suo cinema indipendente”), di Federico Pedroni, Massimo Causo, Chiara Borroni, Giulio Sangiorgio, più una sezione sulla musica (Adriano De Grandis, Alberto Crespi), una sul rapporto con i generi (Leonardo Gandini, Mauro Gervasini, Adriano Piccardi), un’antologia di dichiarazioni del regista.

E con una precisazione della curatrice a proposito delle accuse di misoginia, che di questi tempi rischiano di tornare a galla. Misoginia di De Palma? “Se pensiamo ai protagonisti maschili dei film di De Palma (gli ‘eroi’, non i ‘cattivi’), ci troviamo davanti a un campionario disarmante di fobie, insicurezze, infantilismi, ambiguità sessuali, egopatie, frustrazioni, traumi, inadeguatezze”, mentre “in questo universo maschile ‘spappolato’, le donne, per quanto vittime predestinate di voyeur, pedinamenti e attacchi all’arma bianca, sono le autentiche ‘eroine’, non tanto ‘fanciulle in pericolo’ da soccorrere o ‘femmine fatali’ dalle quali guardarsi, ma veri e propri motori e cervelli dell’azione”. Assolto anche davanti ai nuovi tribunali, insomma: il rapporto di un regista con “l’attualità” finisce per passare anche da queste cose.

 

Postato in 35° Torino Film Festival.

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