MOSTRA DI VENEZIA 2014 – Hungry Hearts di Saverio Costanzo


di Massimo Lechi.
Coppe Volpi ad Adam Driver e Alba Rohrwacher per Hungry Hearts di Saverio Costanzo, il secondo film italiano presentato in concorso e l’unico premiato dalla giuria presieduta dal compositore Desplat. Niente di strano, in apparenza: da molti anni a questa parte i premi agli attori sono spesso il contentino riservato alle nostre delegazioni, quasi un osso lanciato ad addetti ai lavori e stampa locali per non far urlare allo scandalo per l’esclusione dal podio dei nostri titoli. Eppure le molte buone recensioni e le calde parole di alcuni giurati dopo la cerimonia conclusiva fanno pensare a qualcosa di più, a un premio vero e meritato. Un premio all’asse portante di un film innegabilmente suggestivo che ha colpito tutti, ben più di quanto fosse lecito prevedere. Un premio a un oppressivo horror da camera attraverso il riconoscimento della tensione fisica ed emotiva – e dunque cinematografica – creatasi tra i suoi protagonisti.

Tratto dal romanzo Il bambino indaco di Marco Franzoso, il film è ambientato a New York, ai giorni nostri. Qui, per uno scherzo del destino, Mina (Alba Rohrwacher) e Jude (Adam Driver) si incontrano nella toilette di un ristorante cinese. Lui è un ingegnere di belle speranze, lei un’italiana che lavora all’imbasciata. Sono giovani, un roseo futuro li attende. Iniziano una storia e il resto, prevedibilmente, viene da sé: convivenza, matrimonio, prima gravidanza.

Un giorno Mina viene folgorata dalle parole di una veggente di strada: il suo bambino sarà speciale, sarà un bambino indaco, da proteggere dal mondo esterno. Il bimbo nasce e nella vita della coppia tutto cambia. Mina inizia ad avere comportamenti ossessivi, smette di allattare, costringe il neonato a ingurgitare olii depuranti e pappette di verdure per preservarne la presunta purezza. Jude pare accettare la situazione, ma ben presto – complice l’intervento di sua madre (Roberta Maxwell), anziana e spiritata – si rende conto del pericolo. Deciderà di agire, di rompere l’equilibrio. Con tragiche conseguenze.

Ancora un romanzo, ancora una storia di ossessione, ancora il corpo e ancora il ricorso al genere, per il regista romano. Perché Hungry Hearts, forse persino oltre le intenzioni iniziali, è tante cose: un thriller sentimentale, un melò orrorifico, il diario di un disfacimento psichico, un incubo.

Basta in fondo la trama per capire come Costanzo, a quattro anni dal bistrattato La solitudine dei numeri primi, sia tornato sul luogo del delitto, a quelle atmosfere da horror psicologico che tanto sembrano affascinarlo. L’operazione alla base del film precedente si era rivelata interessantissima, sebbene fallimentare: prendere un libro di successo, ribaltarlo, isolare l’elemento patologico contenuto nella storia e usarlo come chiave per raccontare il morboso rapporto tra i due personaggi principali, e infine richiudere il tutto in una narrazione effettistica quasi alla Dario Argento, liberando il proprio stile dalla rigorosa ricercatezza delle prime opere. Il risultato non aveva convinto: troppa testa e poco cuore, e un senso d’artificiosità che finiva col depotenziare le molte intuizioni registiche. La scelta di trasformare l’asettico romanzo di Paolo Giordano in frammenti di cinema “puro” si era insomma ritorta contro Costanzo, determinando l’insuccesso della pellicola.

In Hungry Hearts le ambizioni, sulla carta, sono più contenute: un solo ambiente (un piccolissimo appartamento) e due soli attori. Tutto il film è lì, tra quattro mura. La macchina da presa stringe su Driver e la Rohrwacher, braccandoli nell’isolamento della loro casa. La follia di Mina monta, cresce, al pari dell’apprensione di Jude – l’unico, inizialmente, a spingersi fuori dalla prigione casalingo-affettiva, permettendo all’inquadratura di aprirsi e includere le sfocate strade di New York. L’obiettivo si sgrana in grandangoli che imbozzolano i corpi, li chiudono, dando allo spettatore una sensazione di soffocamento e di pericolo incombente. I quadri rifiniti di Private e In memoria di me lasciano perciò definitivamente spazio a una regia più libera, caotica, persino sporca, che non evita le stecche e i grotteschi passaggi a vuoto ma, nei momenti più riusciti, riesce a rendere con forza miracolosa i saliscendi emotivi dei protagonisti, la loro lotta interiore, la crisi che li costringe a mettere in discussione il proprio amore – unica certezza.

Non è un caso che, in un prefinale tanto tenero quanto inquietante, subito prima della drammatica conclusione (che non sveliamo), la giovane madre e il bambino conteso giochino in riva al mare, al tramonto, ripresi con inedita delicatezza. Il senso di Hungry Hearts è, in fondo, in quei pochi effimeri istanti di pace e respiro. E nelle note di Tu si’ ‘na cosa grande, straniante e furbo leitmotiv che apre e chiude la disperata storia di Mina e Jude.

Massimo Lechi

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