Mostra di Venezia 2013: Eastern Boys


Già co-sceneggiatore e montatore per Laurent Cantet, Robin Campillo ha portato alla 70° Mostra del Cinema di Venezia nella sezione “Orizzonti” il suo secondo lungometraggio, Eastern Boys, un film ben girato, con delle buone idee e delle singole scene particolarmente coinvolgenti, ma che complessivamente regge solo in parte a causa del modo con cui la sceneggiatura sviluppa la trama.

La vicenda è ambientata prevalentemente al Gare du Nord di Parigi e vede come protagonista Daniel, un borghese omosessuale di mezza età cui viene svaligiata la casa da un gruppo di giovani emigrati slavi. Dopo tale avvenimento, l’uomo inizierà una storia prima solo carnale e poi anche sentimentale con Marek, un membro della gang. Presto, però, i sentimenti di Daniel verso il ragazzo subiranno una mutazione.

A Robin Campillo piace raccontare per immagini e si vede: la sua capacità di creare suspense nelle scene chiave risulta evidente, così come quella di descrivere i sentimenti dei protagonisti e la loro evoluzione psicologica, basti pensare alla scena dello svaligiamento e al particolare utilizzo degli oggetti.

Nella sequenza del saccheggiamento, il terrore e lo spaesamento di Daniel viene descritto da una regia che coglie sia il caos della situazione che il volto spaventato e disorientato del protagonista (ben interpretato da Olivier Rabourdin), mentre la sottrazione e l’acquisto di oggetti  rappresentano le tappe del mutamento esistenziale dei personaggi.

Paradossalmente, il problema non è come l’intreccio viene cinematograficamente raccontato, ma è proprio l’intreccio in sé, soprattutto nella seconda parte, dove l’evoluzione dei protagonisti risulta poco credibile, mentre la descrizione sociale dell’emigrazione – pur senza retorica e o buonismi di sorta – rischia di essere banalizzata da situazioni risolte in modo sbrigativo e da personaggi assai stereotipati.

Così, quello che probabilmente era l’intento centrale del regista – unire l’intimità psicologica di una complessa storia d’amore a un ritratto secco e realista di una certa emigrazione – non riesce del tutto a causa di una sceneggiatura che si smarrisce in sviluppi non molto credibili e in soluzioni un po’ frettolose, nel finale persino consolatorie.

Il film ha comunque vinto la sezione “Orizzonti” come miglior film: premio comprensibile per la capacità di Campillo di coinvolgere emotivamente lo spettatore, ma non del tutto meritato, soprattutto di fronte ad opere più riusciste e interessanti come ad esempio Still Life di Uberto Pasolini e, soprattutto, Why Don’t You Play in Hell? di Sion Sono.

(di Juri Saitta)

Postato in Eventi, Festival, Mostra di Venezia 2013.

I commenti sono chiusi.