Melancholia – Umor nero e apocalisse


MelancholiaDue sorelle di fronte alla fine del mondo. È da questa angolazione catastrofica che Lars von Trier costruisce il suo film più intimo e autobiografico. “Justine c’est moi”, urla a gran voce l’eccentrico regista danese per tutta la prima parte di Melancholia, ma poi volta pagina e, rovesciando la prospettiva, non esita a identificarsi con la fragile razionalità di Claire. Lars von Trier condivide con Justine (Kristen Dunst) le contraddizioni comportamentali (e linguistiche) delle persone depresse che non riescono avere un rapporto stabile con il mondo esterno: da qui, coerentemente, la sua scelta di raccontare il lunghissimo ricevimento matrimoniale che copre la prima ora abbondante del film con la steadicam e con lo stile fluttuante teorizzato da Dogma. Nello stesso tempo, però, egli si rispecchia anche nella tenace voglia di normalità di Claire (Charlotte Gainsburg), la quale ha organizzato “a orologeria” il ricevimento per la sorella nella bella villa dove vive con il ricco marito (Kiefer Sutherland) e con il figlioletto. Quello che ne sortisce è un film doppio, ma niente affatto ambiguo. Certo, con Melancholia bisogna avere pazienza, accettandone i ritmi lenti, le tante divagazioni narrative della prima parte essenzialmente corale, gli innumerevoli cambi di tono, che vanno dal melodramma alla farsa; anche le caccole estetiche di un regista sempre in cerca di teoria. Ma gli spettatori pazienti, infine, sono ripagati dalla visione di quella che è forse l’opera migliore, certamente la più sincera, di un autore inquieto e contraddittorio, eccessivo nel filmare come nel parlare. Divagazione, ma forse no. L’incidente verbale di Cannes sembra aver rivelato più la cattiva coscienza di chi si è scandalizzato che la voglia di provocazione di colui che aveva detto: “Capisco Hitler, perché capisco l’uomo che è pieno del male”. E che altro poteva mai dire un artista, che non è uno storico? Ma un regista cinematografico che ha sempre il dovere di capire le ragioni degli altri, anche quando non le approva; un autore “eccessivo” il quale, aggiungendo che “sono vicino agli ebrei, ma non troppo perché Israele è un problema”, non esprimeva soltanto un’opinione politica discutibile, ma legittima, perché rivelava anche un’apparente contraddizione che in fin dei conti tutto il suo cinema (e Melancholia in particolare) ripete da tempo: l’amore per gli individui e il disprezzo per la specie umana. La cinepresa di Lars von Trier ama con evidenza i personaggi che abitano il suo cinema con i loro turbamenti interiori (Kristen Dunst), illusioni (Charlotte Gainsburg) o vigliaccherie (Kiefer Sutherland), rabbie (Charlotte Rampling) o voglia di potere (Stellan Skarsgård); ma nello stesso tempo ribadisce che il vero problema è l’umanità, la quale usa la ragione solo per andare contro quella natura (evidente l’ironia nei confronti degli scienziati), che invece gli animali (vedi il cavallo di Melancholia) assecondano e comprendono. Con il risultato che alla fine l’unica cosa che secondo l’antiumanista von Trier è degna di essere salvata dalla catastrofe cosmica non è la vita, ma la bellezza: quella del pianeta denominato Melancholia che sta per scontrarsi con la Terra, quella delle opere d’arte che nel prologo scorrono sempre uguali a se stesse, invano violate dalla morte, sotto le appassionate note del “Tristano e Isotta”; in fin dei conti, anche quella che il cinema di von Trier così contraddittoriamente continua a perseguire.

Melancholia
(Melancholia, Danimarca, Germania, Francia, Svezia, 2011)
regia e sceneggiatura: Lars von Trier – fotografia: Manuel Alberto Claro – Scenografia: Jette Lehmann – Montaggio: Morten Højbjerg Molly e Marlene Stensgaard.
Interpreti: Kristen Dunst (Justine), Charlotte Gainsburg (Claire), Kiefer Sutherland (John), Alexander Skarsgård (Michael), Charlotte Rampling (Gaby), John Hurt (Dexter), Stellan Skarsgård (Jack), Brady Corbet (Tim). Jesper Christensen (piccolo padre).
Distribuzione: Bim
Durata: due ore e 10minuti.

Postato in Numero 95, Recensioni, Recensioni di Aldo Viganò.

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