Intervista a Marco Bellocchio – Il lungo addio


Marco BellocchioCi sono film che nascono da una spinta interiore insopprimibile, film cercati per anni e perseguiti con ostinazione, ed infine film che, complici situazioni curiosamente favorevoli, si sviluppano per caso, quasi da sé. Sorelle mai di Marco Bellocchio appartiene a quest’ultima categoria: composto da sei episodi girati tra il 1999 e il 2008 come esercitazioni del corso “Fare Cinema” tenuto dallo stesso regista all’interno del Festival di Bobbio, è il completamento di Sorelle, mediometraggio datato 2006. A tenere insieme queste brevi storie – realizzate con pochissimi mezzi e troupe di giovani ogni anno diverse – è il filo rosso rappresentato dal complesso rapporto tra Giorgio (Pier Giorgio Bellocchio), la sorella Sara (Donatella Finocchiaro) e la nipote adolescente Elena (Elena Bellocchio), sotto gli occhi benevoli delle zie anziane (Letizia e Maria Luisa Bellocchio) e di Gianni Schicchi, funambolico amico di famiglia protagonista di un gran finale metafisico sulle rive placide del Trebbia. Un film sugli affetti familiari quindi, ma anche una commossa rivisitazione di luoghi già scandagliati a partire da I pugni in tasca (1965), film d’esordio a cui il regista torna qui continuamente, riutilizzandone addirittura spezzoni in bianco e nero per sottolineare contrasti e continuità all’interno di un mondo apparentemente immutabile, intriso di un passato che aleggia in ogni angolo di strada, in ogni stanza della casa di famiglia. Un passato e una Bobbio da cui Bellocchio, con molto disincanto e ironia cechoviana, sembra intenzionato a distaccarsi senza rimpianti o recriminazioni, nella pace della maturità.

Sorelle mai nasce in circostanze molto singolari ed ha avuto una lavorazione piuttosto lunga, diluita nel tempo. Lei stesso ha parlato di un “film per caso”.
Sì, diciamo che all’inizio questo Corso di Cinema ha avuto un andamento molto improvvisato. I primi anni era solo un’esercitazione, poi ci si è concentrati su un racconto che però si esauriva rigidamente nei 15 giorni del Corso stesso. Successivamente si è data più attenzione alle riprese, mentre il montaggio veniva realizzato in seguito. L’esperienza del film è stata perciò graduale: prima abbiamo fatto i tre episodi presentati al Festival di Roma, poi mi è parso che altre tre parti si potevano aggregare e quindi alla fine è nato Sorelle mai. E’ un film “per caso” in questo senso. E poi tutto è stato realizzato con entusiasmo e leggerezza perché non avevamo lo scopo di fare un lungometraggio.

Il progetto è stato condotto in parallelo ai suoi ultimi film – L’ora di religione, Buongiorno, notte e Il regista di matrimoni. Si potrebbe dire che se quelli sono romanzi, questo è una sorta di diario d’occasione.
Effettivamente è stato come scrivere dei racconti – l’esperienza di Bobbio mi permetteva di farlo. Naturalmente con dei limiti, dati dal fatto che si girava sempre nel paese perché non c’era un budget di produzione e quindi dovevamo arrangiarci. Per questo ricorrono tanto spesso i fratelli, le sorelle, i figli, gli amici, gli ambienti, il fiume Trebbia. E poi la stagione. Il particolare curioso è infatti che tutte queste storie avvengono d’estate, proprio perché in quel periodo facciamo il Corso.

E’ corretto definire Sorelle mai come un film sui legami? Legami con la terra, la famiglia, il passato.
Sì, ed è anche un po’ un lungo addio, nel senso che è durato molto negli anni. Diciamo che quello che è stato assente sin da subito, per un’elaborazione mia personale, è la rabbia. Non c’è nessun risentimento, e c’è invece come una separazione leggera. Anche la morte finale di Gianni Schicchi, l’uomo in frac che sprofonda nel fiume, è la fine fisiologica di un passato, non è Ale [il protagonista de I pugni in tasca n.d.r] che butta la madre nel burrone, e in fondo sono gli stessi luoghi. C’è quindi un distacco sostanziale, reale.

Mi sembra che nel distacco l’amore abbia prevalso sulla rabbia, per citare un suo film [Amore e rabbia (1969) n.d.r].
L’amore e anche la tenerezza verso il paese, i parenti, verso le mie sorelle. C’è poi ironia, ma anche una certa tristezza, soprattutto rispetto al tempo che passa. Però, ripeto, non ci sono né odio né rabbia, che erano invece presenti non solo ne I pugni in tasca ma anche in altri film più furiosi.

Oltre alla rabbia, l’altra costante dei rapporti familiari rappresentati nei suoi film è l’alterazione. C’è sempre qualcosa di morboso, di patologico. Anche questo manca visibilmente in Sorelle mai.
La caratteristica di questi episodi è quella di partire dai conflitti utilizzando però anche registri ironici e impressionistici, ma senza aggiungere amarezza, sconforto. Anche nei dialoghi e nelle situazioni paradossali prevale un certo crepuscolarismo, triste ma mai furioso. Poi, certo, ci sono dei momenti di scontro legati al personaggio tormentato di Pier Giorgio, ma l’atteggiamento di Donatella o delle zie è sempre benevolo e perdonante, ed è buono anche il rapporto con la nipote che cresce. Ne I pugni in tasca tutta una serie di tematiche furono assunte in chiave politica, con questo ribelle che stermina ed elimina, e anche adesso, nell’edizione teatrale [diretta da Stefania De Santis, con Pier Giorgio Bellocchio e Ambra Angiolini n.d.r], il microcosmo familiare è fortemente patologico. Qui tutto questo non c’è, perché siamo nel dopo. Le vestigia sono vuote, le stanze non sono piene di fantasmi: si sono svuotate della loro pazzia.

Il risultato di questa composizione di episodi è un album di famiglia. Si ha la sensazione di entrare nella sua intimità familiare.
Sì, certamente. Lo è per l’atteggiamento, lo sguardo, il sentimento interno di compassione e non di rimprovero – chi potevo rimproverare, in fondo? E poi è un album di famiglia per via delle circostanze di lavoro: avevo capito che non avendo nulla in mano, improvvisando, forse si poteva, coinvolgendo alcune persone a me ben note, fare comunque qualcosa che andasse in profondità. E questo lo facevo per me e lo facevo anche per assicurare qualità al Corso, per dare a chi frequentava delle esperienze che non fossero superficiali.

Bobbio ritorna anche in un progetto successivo, realizzato sempre all’interno di “Fare Cinema”, e incentrato sulla Monaca di Monza. Tenterà la stessa operazione?
Questo è da vedere, anche perché certe cose sono difficilmente ripetibili. Credo che, se si sviluppasse un progetto nuovo a partire da quello che abbiamo già girato, forse andrebbe realizzato fuori dal laboratorio. Adesso abbiamo fatto un episodio, però per girare il seguito avremmo bisogno di qualcosa di più, e questo qualcosa dovrebbe comportare un’organizzazione o una struttura che, pur molto in piccolo, assomigliasse a un film. Prenderemo una decisione nelle prossime settimane.

Circola il titolo Lacrime.
E’ la Prova delle Lacrime. Sarebbe la storia di un personaggio già visto nel primo episodio, accusato di stregoneria e legato alla figura della Monaca. Allora la Prova delle Lacrime era un modo per accertare se si aveva di fronte una strega o meno. Però, ripeto, è un progetto in sospeso, è ancora tutto da stabilire.

(di Massimo Lechi)

Postato in Interviste, Numero 92, Registi.

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