Dalla Spagna con furore – Alex de la Iglesia


L’universo grottesco di Alex de la Iglesia, nei cinema con Ballata dell’odio e dell’amore.

Ballata dell'odio e dell'amoreChiunque abbia frequentazioni festivaliere sa che nella maggior parte delle occasioni si è costretti, l’ultimo giorno della kermesse, a dover rispolverare giocoforza una formula vecchia e mai fuori moda, quella di “premio (o verdetto) a sorpresa”. L’ultima Mostra di Venezia non ha fatto eccezione, e così al basco Alex de la Iglesia è toccato l’indiscutibile piacere di vedersi rilanciare la carriera da ben due di questi riconoscimenti imprevedibili. Un caso eclatante, un uragano cinefilo che si è abbattuto sul festival tra i sogghigni del presidente Tarantino, distruggendo il castello di previsioni eretto dai critici presenti in Laguna. Ma chi è questo de la Iglesia, e perché un Leone d’Argento campeggia sul suo caminetto?

Tracagnotto, basso e barbuto, il regista nativo di Bilbao è il capofila della serie B spagnola, uno dei più amati cineasti di genere emersi negli ultimi tempi. La sua curiosa e sulfurea parabola è iniziata nei primi anni ’90 sotto l’egida dei fratelli Almodòvar (Pedro ad Agustìn), subito dopo la laurea in filosofia ed un passaggio
fugace nella televisione commerciale. Nel 1993 è infatti proprio l’autore di Donne sull’orlo di una crisi di nervi a produrne l’opera prima, Azione mutante – strano incrocio tra la Bella e la Bestia e la serie di Mad Max. Il mix di umorismo grottesco, gusto dell’orrido e commovente povertà di mezzi è solo un preludio splatter a Il giorno della bestia, horror con esplosioni di violenza casareccia e Anticristi che riscuote grande successo e fa incetta di premi Goya.
Sin dai primi titoli de la Iglesia mette in mostra i tratti principali della propria estetica: la deformazione, l’anti-realismo trucido ed il taglio fumettistico delle immagini, sempre ingombre di personaggi marionettistici dalle psicologie elementari, quasi archetipiche; insomma, una vera gioia per i cinefili più spinti – quelli,
per intenderci, che annoverano Jesùs Franco nella lista dei profeti dell’umanità.
I film successivi hanno alterne fortune, ma mostrano un de la Iglesia desideroso di uscire dal ghetto del cinema artigianale: se Perdita Durango (1997) con Javier Bardem viene massacrato dalla censura, La comunidad – Intrigo all’ultimo piano (2000) con Carmen Maura e Crimen perfecto – Finché morte non li separi (2004) raccolgono consensi, allargando il numero di fan sfegatati. I tono sono sempre più caricaturali, gli attori sempre sopra le righe, ma il tocco del regista è ormai inconfondibile e si prefigura la prima produzione internazionale. Nel 2008, puntualmente, esce Oxford Murders – Teorema di un delitto, un thriller di buona fattura in cui, al posto del consueto campionario di donne urlanti, obesi schizzati e poltiglie organiche, figurano John Hurt e Elijah Wood, mentre de la Iglesia gestisce il racconto con buona padronanza. Gli incassi tuttavia languono e la critica snobba il tutto.
Due anni di stop portano infine al trionfo di Ballata dell’odio e dell’amore, premiato per migliori regia e sceneggiatura a Venezia e attualmente nelle sale. Fumettone
violentissimo ambientato tra i tendoni da circo nel grigiore della Spagna franchista, il film rappresenta forse la sintesi massima del suo cinema: nello scontro all’ultimo sangue tra due clown, c’è infatti tutto l’universo distorto, tutto il furore visivo di un regista votato all’ammiccamento ed al kitsch più sfrenato.
Serie Z per bambocci o nuova frontiera dell’intrattenimento da pop-corn? Al pubblico l’ardua sentenza.

(Massimo Lechi)

Postato in Festival, Numero 91, Registi.

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