La fabbrica di cioccolato

Due sembrano essere i motivi di fondo che hanno spinto un regista-autore quale Tim Burton a portare sullo schermo la favola di Roald Dahl, già soggetto di un non memorabile “cult” di Mel Stuart. Da una parte, l’occasione di raccontare una storia in cui horror e cartoon (cioè, le sue due principali passioni) s’intrecciano in modo indissolubile sul ritmico sfondo del musical e, dall’altra, l’intuizione di fare di Willy Wonka, attraverso l’interpretazione dell’attore feticcio Johnny Depp, l’immagine dolente e tragica di un artista incapace di trovare quiete nel proprio corpo e nel proprio successo professionale.

E, se questa intuizione induce Burton a stemperare la gioiosità favolistica pur presente nel modello letterario come nel precedente film interpretato da Gene Wilder e a fare del miliardario genio del cioccolato un inquietante clone di Michael Jackson, ancora più dinamici e inventivi sembrano essere i frutti del suo primo motivo d’interesse per gli esiti di quel concorso a premi che porta cinque ragazzini (con parenti al seguito) al di là dello specchio del vivere quotidiano.

Ecco allora che, soprattutto nella prima parte, il suo film sa davvero costruire un mondo di favola: un mondo spinto sino agli estremi della inverosimiglianza grottesca, ma anche capace di proporsi come autentica sintesi figurativa della realtà contemporanea. Un universo a sé che non si pone tanto l’obiettivo di essere l’immagine veritiera del già dato, quanto quello di proporsi orgogliosamente come l’autonoma trasfigurazione artistica della realtà nella sua essenza, più vera del vero proprio in virtù della sua dichiarata convenzionalità. Il discorso di Burton è complesso anche perché investe argomenti forti quali la violenza sociale, la divaricazione crescente tra l’arroganza dei ricchi e la ricchezza sentimentale dei poveri; ma è proprio questo, mi sembra, che costituisce il filo narrativo del mondiale coinvolgimento nella ricerca dei cinque biglietti d’oro nascosti in milioni di tavolette di cioccolata.

E poi c’è il diritto-dovere di sognare, caro a tutti i protagonisti dei film di Burton, da Edward mani di forbice a Batman, da Ed Wood al commesso viaggiatore di Big Fish. Come i personaggi di Spielberg quelli di Burton sognano un mondo che non c’è, ma mentre per l’autore di E.T. e di Salvate il soldato Ryan il sogno è la via per entrare nel mondo dell’innocenza primordiale attraverso le forme dolenti del melodramma, per Burton esso rinvia prima di tutto a se stesso: cioè, all’universo dell’immaginazione e della fantasia.

Ed ecco pertanto che, mentre sottolinea come sia proprio la tenace insistenza a sognare a condurre il giovane Charlie dalla convenzionale e felice astrattezza della povertà alla fantasmagorica ricchezza della fabbrica di cioccolato, Burton ci rivela anche che, a ben vedere, entrambi quei mondi sono dominati dallo stesso principio di libertà individuale e caratterizzati solo dalle variazioni di stile. Dalla classicità dello sguardo modellato sulla lettura di Dickens e sulla visione di Capra, alla fantasmagorica modernità degli effetti speciali. Lo scarto è solo in apparenza grande: per Burton, quello che trionfa è sempre solo il piacere di tradurre la vita in un atto creativo.

La fabbrica di cioccolato
(Charlie and the Chocolate Factory – USA, 2005)
regia: Tim Burton
Sceneggiatura: John August, dal romanzo omonimo di Roald Dahl
Fotografia: Philippe Rousselot
Musica: Danny Elfman
Scenografia: Alex McDowell
Costumi: Gabriella Pascucci
Montaggio: Chris Labenzon
Interpreti: Freddy Highmore (Charlie Bucket), Johnny Depp (Willy Wonka), Helena Bonham Carter (signora Bucket), James Fox, Jordan Fry (Mike Teavee), David Kelly (nonno Joe), Christopher Lee, Missi Pyle (signora Beauregard), Annasophia Robb (Violet Beauregard), Noah Taylor, Philip Wiegratz (Augustus Gloop), Julia Winter (Veruca Salt)
Distribuzione: Warner Bros. Italia
Durata: 115 minuti

(di Aldo Viganò)

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