Rivincita di Natale

In diciassette anni, quanti separano Rivincita di Natale da Regalo di Natale, tante cose sono cambiate in Italia; anche a Bologna e nel cinema di Pupi Avati. Tutto sembra essersi un po’ incarognito, involgarito, spinto sempre più verso un’esistenza incapace di vivere eticamente il presente e di sognare il futuro.

Ciò che è restato, suggerisce Avati, facendo seguire la “rivincita” al “regalo”, è solo un mondo dominato dall’interesse economico e dalla volontà di vendetta, ad ogni costo. Due sono le più evidenti differenze che separano il remake dal suo prototipo: la prima è la fine dei valori – anche quelli più malinconici – dell’amicizia; e la seconda, in gran parte conseguenza della prima, è la rottura dell’involucro claustrofobico che caratterizzava il Regalo di Natale per aprire il racconto verso l’esterno: la città di Bologna e i suoi dintorni. In questa (insieme alla scelta di abbandonare gli inutili inserti onirici del primo film) sta il pregio principale della Rivincita di Natale; in quella (rappresentata con freddo cinismo) il suo massimo difetto narrativo ed estetico. La vendetta, dunque: negata l’amicizia questa domina sovrana.

Ripresosi economicamente dalla botta precedente (ora è il maggiore esercente cinematografico della Lombardia), Franco sogna un nuovo scontro con il sensuale e flemmatico professore Santelia. La bella moglie di un chirurgo bolognese gli si dimostra disponibile e il marito gli dice quasi per caso di aver operato il suo amico Lele di un cancro al polmone: è l’occasione per la rimpatriata. Licenziato dal giornale, Lele fa ora il passafilm alla Cineteca; Ugo s’arrangia come cameriere in un ristorante per emigrati di colore; e Stefano vive con un ricco antiquario omosessuale.

Si ritrovano nella villa di quest’ultimo per giocarsi con Santelia centinaia di migliaia di euro (quando si dice l’inflazione!). Il poker a quel tavolo verde ha tre regole principali: bluffare, barare, mentire. Nessuno dice la verità o fa una cosa onesta. Rappresentanti e insieme inconsapevoli vittime di un mondo corrotto e corruttore, tutti vogliono imbrogliare gli altri e nello stesso tempo temono di esserne imbrogliati.

È il meccanismo della “stangata”, dentro al quale Avati annacqua questa volta il segno stilistico della sua consueta attenzione per le piccole sfumature psicologiche. Se i personaggi si trasformano così in pedine di un gioco inesorabilmente schematico (e non proprio imprevedibile), restano però gli attori che Avati sa dirigere sempe molto bene. Ci si può accontentare? È il principio del bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto. Allo scarso interesse delle partite a poker, sempre truccate e messe in scena più con enfasi che con naturalezza, fa riscontro la sottile sgradevolezza con cui tutti gli interpreti sanno costruire i loro personaggi; all’uso impacciato delle riprese in interno, quello sempre molto abile e arioso dei pur rari esterni su una Bologna che la cinepresa sa autenticamene amare. È questo, solo questo, ciò che la Rivincita di Natale mette sul piatto: vedo o passo.

RIVINCITA DI NATALE
(Italia, 2003)
Regia, soggetto e sceneggiatura: Pupi Avati
Fotografia: Pasquale Rachini
Musica: Riz Ortolani
Scenografia: Simona Migliotti
Montaggio: Amedeo Salfa
Interpreti: Diego Abatantuono (Franco), Gianni Gavina (Ugo), Alessandro Haber (Lele), Carlo Delle Piane (Santelia), George Eastman (Stefano), Petra Khruz, Osvaldo Ruggeri
Distribuzione: Medusa Film
Durata: un’ora e 48 minuti

(di Aldo Viganò)

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