Le invasioni barbariche

C’era una volta un mondo fatto di interessi culturali e di materialistico attaccamento ai piaceri della vita: il cibo, il sesso, anche solo il trascorrere una serata in compagnia degli amici. C’è oggi un mondo fatto di efficienza professionale, di capacità di affrontare e di risolvere i problemi senza lasciarsi sopraffare dalle emozioni personali, ma anche per questo lasciato in balia delle “invasioni barbariche” rappresentate dall’ondata di ritorno dell’integralismo etico e religioso.

Rémy appartiene al vecchio mondo, suo figlio Sébastian al nuovo. Si ritrovano per intercessione della moglie e madre Louise: Rémy sta morendo di cancro e Sébastian gli renderà felici gli ultimi giorni, invitando al suo capezzale i vecchi amici, procurando la droga per lenirgli il dolore fisico, organizzando con dolcezza la cerimonia finale dell’eutanasia. Tutto così, con serenità e senza proclami ideologici. Solo con un filo di nostalgia: forse la stessa con cui i sofisti romani accettavano ai tempi dell’impero il suicidio per svenamento.

Proseguendo il discorso del suo film più noto (Il declino dell’impero americano), il franco-canadese Denys Arcand mette in scena con Le invasioni barbariche un’opera in cui è facile rispecchiarsi a tutti coloro che hanno una visione laica della vita. Il suo è un film civile, dichiaratamente ateo e pur sotteso da una grande nobiltà etica. Un film che si consiglia di vedere a tutti coloro che non vogliono rassegnarsi all’avvento del medioevo prossimo venturo.

Denys Arcand non ha illusioni, ma ci conforta (e si conforta) con la gentilezza del suo sguardo cinematografico che affonda le proprie radici soprattutto nella sceneggiatura e nella direzione degli attori. È su questo duplice piedestallo, infatti, che Le invasioni barbariche si regge: tanto che i momenti più esplicitamente visivi (i lunghi carrelli all’interno dell’inferno del sistema ospedaliero canadese) risultano anche quelli più inutili e meno interessanti. Il cinema più autentico di Arcand è di matrice squisitamente teatrale, fatto di piani ravvicinati, di situazioni drammatiche, di bei dialoghi, di rigoroso controllo del casting e della recitazione.

Chi si accontenta di questo (e non è poco) può trarre forti emozioni dalla visione di Le invasioni barbariche, dove scorre quasi una vena cechoviana (sarà forse in memoria del Gabbiano di Cechov che Rémy cita Genova al primo posto tra i suoi rimpianti delle città che morendo non potrà più vedere?) e dove s’impone con forza la nostalgia di un umanesimo senza vincoli e senza condizionamenti. Su che cosa resti al mondo dopo la morte di Rémy, il film di Arcand dice e non dice. Sébastian resta un personaggio fondamentalmente misterioso, come il nostro futuro.

Pur tra le sue molte virtù è certo però che Sébastian non ne possiede almeno due: la capacità di sognare (cosa che pur sa fare anche la religiosa infermiera sempre presa in giro da Rémy) e l’autoironia, di cui fanno invece sfoggio Rémy e tutti i suoi amici, sia quando evocano i loro amori passati o si abbandonano al ricordo delle illusioni perdute, sia quando si trovano a fare i conti con il tempo che passa o con i figli che non capiscono o con la morte stessa. E di un mondo senza ironia, sembra dire Arcand, è sempre legittimo dubitare e avere un po’ di paura.

LE INVASIONI BARBARICHE
(Les invasions barbares, Canada-Francia, 2002)
Regia, soggetto e sceneggiatura: Denys Arcand
Fotografia: Guy Dufaux
Musica: Pierre Aviat
Scenografia: François Séguin
Montaggio: Isabelle Dedieu
Interpreti: Rémy Girard (Rémy), Stéphane Rousseau (Sébastian), Dorothée Berryman (Louise), Louise Portal (Diane), Dominique Michel (Dominique), Yves Jacques (Claude), Pierre Curzi (Pierre), Marie-Josée Croze (Nathalie), Johanne-Marie Tremblay (sorella Constance).
Distribuzione: BIM
Durata: un’ora e 39 minuti

(di Aldo Viganò)

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