Dogville

Il motivo per cui Lars von Trier riesce ancora una volta a dividere gli spettatori tra favorevoli e contrari nasce dal fatto che Dogville, come tutti i suoi film, esibisce un idea estetica, figurativa o narrativa (a volte tutte insieme) molto forte, per cui si tende soprattutto a fermarsi a questa, parlandone pro o contro, invece che indagare l’oggettività dei risultati.

Ma il cinema di von Trier è, per fortuna, più complesso dei suoi manifesti linguistici o delle sue estrose prese di posizione per «épater le bourgeois»: siano queste rappresentate dagli ondivaghi comandamenti di Dogma o dalle citazioni pseudo-teatrali della scenografia di questo Dogville, che non rinuncia certo a strizzare l’occhio a chi conserva il ricordo di La piccola città di Thornton Wilder. C’è molta tensione, ma anche tanto manierismo, in quel villaggio disegnato sul pavimento di un grande studio cinematografico, dove approda Grace – la Grazia – in fuga da una banda di gangster.

Con grande compiacimento, spinto sino alla sgradevolezza, von Trier traccia il proprio teorema: cioè, la sua progressiva riduzione in schiavitù della nuova venuta da parte degli abitanti di quel microcosmo, dove arroganza e sensi di colpa, sesso ed egoismo, violenza e amore convivono nel segno dei meccanismi che governano la civiltà del capitalismo. Articolato in tanti capitoletti tenuti insieme da un’onniscente voce off, il film ha una dichiarata struttura brechtiana, ma come sempre in von Trier l’apparenza inganna. Anche Dogville, come del resto tutti i suoi film, usa forti temi ideologici e sociali come specchietto delle allodole (“Mac Guffin” direbbe Hitchcock) per un discorso essenzialmente decadente, nel quale il pessimismo ideologico-esistenziale si sublima sino a diventare cosmico nell’auto-contemplazione dell’artista inteso soprattutto a compiacersi di se stesso. Insopportabile, si potrebbe legittimamente concludere. Se non fosse che, come accade a pochi decadenti, von Trier non millanta solo crediti d’artista.

Sotto la narcisistica crosta del “maître à penser” cova davvero un regista che sa caricare di forza ed espressività le proprie immagini, che sa dirigere in modo vitale gli attori nonostante il soffocante schematismo che incombe sui loro personaggi. In Dogville le carte vincenti stanno in Nicole Kidman e nel montaggio. Come fece Godard dentro ai piani sequenza di Fino all’ultimo respiro, qui von Trier taglia all’interno delle sue lunghe riprese con la cinepresa in mano: scompone e destruttura, fa del linguaggio cinematografico l’autentica fonte di uno sguardo inquieto sul mondo, sortendone il suo film di fatto più interessante.

E poi c’è la Kidman: duttile ai voleri del regista come s’addice a una vera attrice, ma anche capace di sintetizzare nel proprio splendido corpo le contraddizioni del personaggio, portandolo con coerenza alla grande sequenza finale (decisamente la più bella del film) in cui duetta con perfida classe con papà James Caan.

DOGVILLE
(Danimarca, Svezia, Francia, Norvegia, Olanda, Finlandia, Germania, Italia, Giappone, Gran Bretagna, Stati Uniti, 2003)
Regia e sceneggiatura: Lars von Trier
Fotografia: Anthony Dod Mantle
Musica: Antonio Vivaldi
Scenografia: Peter Grant
Costumi: Manon Rasmussen
Montaggio: Moly Marlene Stensgard
Interpreti: Nicole Kidman (Grace), Harriet Andersson (Gloria), Lauren Bacall (Ginger), Jean-Marc Barr (l’uomo col cappello), Paul Bettany (Tom Edison), Blair Brown ( Mrs. Henson), James Caan (The Big Man), Patricia Clarkson (Vera), Jeremy Davies (Bill Henson), Ben Gazzara (Jack McKay)
Distribuzione: Medusa Film
Durata: due ore e 57 minuti (Italia: due ore e 15 minuti)

(di Aldo Viganò)

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