“Il mio Godard” di Michel Hazanavicius

di Aldo Viganò.

La furbizia di Michel Hazanavicius ha inizio nel porre al centro del “suo” ritratto di Jean-Luc Godard, la biografia che la moglie del regista franco-svizzero ha scritto nel ricordo del primo anno del loro matrimonio: “Un amore incerto”. Così facendo, infatti, può mantenere separati il giudizio sull’opera di Godard (amata appassionatamente dalla  giovanissima moglie, nota per essere la nipotina di François Mauriac; ma anche amata – si dice con altrettanta passione – dal giovane regista del premio Oscar  2012 “The  Artist”) e quello sulla personalità dell’autore di “Fino all’ultimo respiro”: scorbutica, estremista  e sempre più incapace di comprendere le ragioni degli altri, anche quelle degli amici.

Furbizia, si diceva. Parlare del discusso regista considerato da molti il padre del cinema contemporaneo (o causa della sua morte), senza dover prendere posizione. Entrare direttamente nella storia, senza avere il dovere di assumersi la responsabilità di scegliere o di cercare una sintesi tra coloro che Godard continuano ad amarlo senza metterlo in discussione e quanti lo considerano invece all’origine della fine stessa del cinema.

Una furbizia che risulta certificata non tanto dalle numerose omissioni biografiche, quanto soprattutto dal fatto che poi nello svolgimento del film (in originale, “Le redoutable”) questa dicotomia narrativa tra pubblico e privato non solo non viene né spiegata, né sviluppata; ma dà anche origine a quello che appare più un responso clinico su un uomo paranoico (la gelosia, la non disponibilità a mettere in discussione le proprie idee, comunque quel suo continuo chiedere scusa) che una valutazione estetica o ideologica su un regista che nel film viene dichiarato essere il padre della “Nouvelle Vague”.

Quello che ne consegue è un film pasticciato e irritante, proprio perché più detto che veramente messo in scena. Soprattutto in quello che sembra essere il suo dichiarato tema centrale: la scelta travagliata, ma impossibile, tra Arte e Rivoluzione. È nel nome della prima che Anne Wiazemsky (come tanti suoi giovani contemporanei) dichiara di aver amato il “suo” Godard. Ma che cosa sia stata quest’Arte il film di Hazanavicius proprio non sa dire, limitandosi a mettere in scena qualche banale stilema (attori che recitano proclami in primo piano, bruschi stacchi di montaggio, ecc.), perché poi quello che domina sullo schermo è la sua componente più dichiaratamente ideologica: i cortei e le assemblee del Sessantotto, la progressiva rottura con la giovane moglie e quella apodittica con gli amici (Bertolucci), i colleghi una volta amati (da Renoir a Truffaut) e poi rinnegati; sino all’ingiusto disprezzo per Ferreri e alla fondazione dell’associazione Dziga Vertov, la quale, appunto, voleva porre la Rivoluzione prima del Cinema.

Ma inesorabilmente il sopravvalutato regista Hazanavicius pasticcia, non sapendo scegliere il perché si sia cimentato con questa storia. “Il mio Godard” è una commedia come sembrano suggerire le poche risate del pubblico o è  una tragedia esistenziale? È un melodramma che racconta la fine di un amore dal punto di vista della protagonista o è un pamphlet ideologico dedicato ai miti del Sessantotto? Certo è che, infine, il grande assente dallo schermo risulta essere proprio ciò di cui si parla dall’inizio alla fine del film: cioè, il cinema, quale sistema linguistico atto a determinare – come anche scriveva il giovane Godard – il senso (estetico, morale e ideologico) delle immagini che scorrono a 24 fotogrammi al secondo.

È il cinema che proprio non c’è in “Il mio Godard”, e per questo la noia è sempre dietro a ogni fotogramma. Con il risultato di lasciar emergere il dubbio che forse la vera ragione di esistere del film sia, di fatto, altrove dallo schermo. Vale a dire nel mito di Godard che, paradossalmente, permane  ancora oggi, cinquant’anni dopo il ripudio del cinema narrativo da parte del regista. Cioè, dall’anno di realizzazione di “La cinese”, scelto probabilmente perché il 1967 non fu  solo quello nel quale la minorenne Wiazemsky s’innamorò del trentasettenne autore di “Pierrot le fou”, ma anche quello il cui nacque il presuntuoso Hazanovicius, il quale conferma ancora una volta (dopo il “flop” di “The Search”) il “bluff” che stava già alla base del successo internazionale di “The Artist”: partire da un’idea forte per avvoltolarvi all’interno l’oggettiva insignificanza e superficialità (quando non anche totale assenza) del suo modo di fare del cinema.

 

 

IL MIO GODARD

(Le redoutable, Francia 2017)  regia e sceneggiatura: Michel Hazanavicius – soggetto: da “Un amore incerto” di Anne Wiazemsky – fotografia: Guillaume Schiffman – scenografia: Christian Marti – Montaggio: Anne-Sophie Bion. Interpreti: Louis Garrel (Jean-Luc Godard), Stacy Martin (Anne Wiazemsky), Bérénice Bejon (Michèle Rosier), Micha Lescot (Jean- Pierre Bamberg),  Grégory Gadebois (Michel Cournot),  Felix Kysyl (Jean-Pierre Gorin), Guido Caprino (Bernardo Bertolucci), Emmanuele Aita (Marco Ferreri). distribuzione: Cinema – durata: un’ora e 47 minuti

 

 

 

 

 

 

 

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