“Il cinema secondo Roger Corman” di Giulio Laroni

Grande figura mitica per la cinefilia degli anni ’70, sostenuto qui in Italia soprattutto dall’inesauribile militanza di Giuseppe Turroni, Roger Corman continua grazie al cielo ad affascinare anche le generazioni più giovani. Questa piccola pubblicazione, “Il cinema secondo Corman” (di Giulio Laroni, Biblion ed., Milano 2016, pp167, 15 euro), è stata scritta da un critico e cineasta nemmeno trentenne, che affronta Corman in modo tutt’altro che accademico, non si dilunga nelle prolisse analisi di tante monografie su autori, ma ne parla proprio in rapporto a tutto un modo d’intendere il cinema, e in particolare quello americano.
La parte centrale del libro è occupata da un’intervista fatta dall’autore allo stesso Corman, che descrive i propri metodi di lavoro, soffermandosi anche su singoli film, dicendo tra l’altro di apprezzare Val Guest (“ritengo sia un regista sottovalutato”) e rievocando il suo rapporto con Raf Vallone.
A precederla, una prefazione di Goffredo Fofi e una lunga premessa in cui Laroni affronta la questione del cinema di exploitation, prendendo le distanze dal modo in cui è stato spesso inteso dopo i rilanci tarantiniani anni ’90, quando l’idea stessa di cinema di genere è stata legata da molti fan a una pratica ostentatamente estrema, quasi caricaturale e autoparodistica, che la ridimensiona arbitrariamente proprio nel momento in cui sembra celebrarla.
L’autore prende giustamente le distanze davanti a questa lettura, anche se curiosamente cade poi nella trappola di considerare l’etichetta “B-movie” in termini a sua volta riduttivi, sovrapponendola all’espressione “serie B” intesa calcisticamente come sinonimo di film “minore” dal punto di vista estetico. Se è vero che l’espressione B-movie si riferisce storicamente all’epoca della doppia programmazione, è anche vero che la libertà espressiva a volte garantita da quelle condizioni produttive ha fatto poi utilizzare il termine B-movie come ideale riferimento di un cinema che sfrutta in modo libero e creativo il basso costo, l’impiego dei generi, l’estraneità agli obblighi di “confezione”.
La terza e ultima parte del volume è infine dedicata alla filmografia di Corman, con tutti i film commentati e giudicati in modo stringato ma personale, in modo da rendere viva una sezione solitamente di pura informazione. Detto per inciso, i “quattro stelle” cormaniani secondo l’autore sono: “La legge del mitra”, “La vita di un gangster”, “L’odio esplode a Dallas”, “L’uomo dagli occhi ai raggi X”. Interessante anche la lista dei tre stelle e mezza, cioè dei quasi capolavori, che parte dal western “Il mercenario della morte” (1956) e prosegue con “Il vampiro del Pianeta Rosso” (1957), “La ragazza del gruppo” (1957), “Adolescente delle caverne” (1959), “Un secchio di sangue” (1959), “I vivi e i morti” (1960), “Sepolto vivo” (1961), “La maschera della morte rossa” (1964), “Cinque per la gloria” (1964), “Il clan dei Barker” (1970). Insomma: non del tutto prevedibile, sia per le inclusioni che per le esclusioni.
Nell’insieme, più che un’introduzione a Corman, un’agile discussione della sua opera e del suo contesto, che privilegia alcuni aspetti (ad esempio, il concetto di explopitation), evita un’analisi dettagliata dei temi e dello stile del regista e curiosamente si tiene alla larga dall’attività di produttore, che invece era stata esaltante per quasi tutti gli anni ’70.

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