“Cane mangia cane” di Paul Schrader

di Aldo Viganò.

Puntualmente, ogni nuova regia firmata da Paul Schrader è una sorpresa. In virtù della sua meritata fama di sceneggiatore (da “Yakuza” a “Taxi Driver”, da “Toro scatenato” ad “Al di là della vita”) ci si aspetta sempre da lui film molto scritti e dialogati, mentre poi – soprattutto negli ultimi tempi (basti pensare a “The Canyons”) – ci si trova davanti a opere quasi sperimentali; visivamente provocatorie, soprattutto a causa della loro capacità di coniugare  la riflessione sul linguaggio cinematografico con l’ammodernamento dei modelli classici del cinema di “genere”.

È appunto quanto accade ora anche con “Cane mangia cane” che, seguendo la falsariga del romanzo pubblicato nel 1996 da Edward Bunker, racconta la storia di tre amici appena usciti dal carcere e ora alle prese con il problema di reinserirsi nella vita quotidiana. Di trovare un lavoro “onesto” neppure si parla. L’unica possibilità di sopravvivere è accettare qualche incarico malavitoso su commissione. Ed è appunto quello che i tre fanno. Sino a che viene fatta loro un’offerta pericolosa, ma che non si può rifiutare: rapire il figlio di un boss della malavita per ottenerne in cambio un riscatto che può sistemarli per tutta la vita. Già presentati dal film in alcune sequenze fulminanti, si capisce subito che con simili personaggi le cose non potranno che finire male. Ma, del resto, la “suspense” narrativa non sembra proprio interessare a Paul Schrader. I suoi temi preferiti restano, in fin dei conti, quelli da sempre suggeritigli dalla sua rigida educazione calvinista. La solitudine esistenziale che, pur nell’azione comune, caratterizza ciascuno dei protagonisti. La colpa che per ognuno di loro si manifesta nella facilità con cui fanno ricorso alle armi (coltello o pistola che sia). La redenzione come speranza impossibile da realizzare in un mondo nel quale tutti (malavitosi e forze dell’ordine) fanno ricorso alla violenza degli uni contro gli altri.

Anche se poi, in “Cane mangia cane”, questi temi restano prevalentemente sullo sfondo, emergendo solo ogni tanto in qualche frammento di dialogo di un film che procede prevalentemente per sequenze singole, collegate tra loro da effetti speciali da “cartoon”, cadenzate dall’ostentato prevalere di un tono che mescola il tragico con il grottesco e organizzate senza eccessiva preoccupazione per la coerenza e la verosimiglianza degli avvenimenti. Perché (ed è qui la chiave fondamentale di lettura del film) a Paul Schrader (regista e interprete del film nel ruolo di colui che organizza l’azione) quello che interessa soprattutto è sperimentare la possibilità del cinema classico di raccontare ancora (nonostante tutto) quel mondo governato da caos, dall’arbitrio e dalla violenza, nel quale si trovano a convivere la follia omicida di uno stralunato Willem Dafoe, la fisica determinazione del monolitico Christopher Matthew Cook e l’illusoria speranza di un mondo migliore del mite Nicolas Cage.

Tutto questo fa di “Cane mangia cane” un film indubbiamente eccessivo, a volte ridondante e disordinato; ma anche un film attraversato da un’autentica tensione verso il piacere di fare del cinema e di sperimentarne inedite possibilità espressive. Insomma, ne fa una delle rare opere che in questa stagione avara giustificano il piacere di andare ancora al cinema. Anche solo per essere continuamente spiazzati da sequenze fulminanti che punteggiano, anche in modo slegato, tutto l’arco del film; ma che vengono ben annunciate e introdotte da quella che funge da prologo e da presentazione del personaggio di “Mad Dog” (Willem Dafoe). Cocaina sniffata ed eroina in vena, all’interno di un appartamento dominato dal cattivo gusto di un arredamento rosa shocking. L’arrivo delle due (madre e figlia) grassissime padrone di casa. Si capisce che tra Dafoe e la madre c’è un comune passato affettivo, ma, quando si scopre che lui ha usato il computer di lei per vedere dei porno erotici, tutto precipita nella violenza fatta di decine di coltellate sulla vasta schiena della madre e di colpi di pistola attraverso il cuscino nel corpo prosperoso della figlia. Eppure, a modo loro, si amavano.

Ne consegue che la contraddizione, sarà da ora in poi, il filo narrativo che unisce tutte le sequenze di un film che Schrader gestisce con forte personalità, puntando soprattutto sulla reinvenzione del linguaggio. Proprio come se, nonostante i suoi settant’anni compiuti, il regista fosse ancora l’esordiente di una “nouvelle vague” che crede fermamente nel potere salvifico e significante di un’inquadratura “sgrammaticata” (la ricorrente solitudine dei personaggi nello spazio vuoto); o di un effetto di montaggio “imprevisto”; o della successione di sequenze raccordate in modo violento e finalizzate a restituire l’idea che la redenzione, espulsa ormai dalla vita quotidiana, può sopravvivere solo nell’autonoma forza di un arte che abbia il coraggio di essere anche sgradevole. Foriera di un cinema che non ha paura di spingersi sino al limite di una dichiarata provocazione estetica e culturale.

 

CANE MANGIA CANE

(Dog Eat Dog, USA 2016)  Regia: Paul Schrader – Sceneggiatura: Matthew Wilder, dal romanzo omonimo di Edward Bunker – Fotografia: Alexander Dynan – Musica: Nicci Kasper e Deantoni Park – Scenografia: Carmen Navis – Costumi: Olga Mill – Montaggio: Benjamin Rodriguez jr.  Interpreti: Nicolas Cage (Troy), Willem Dafoe (Mad Dog), Christopher Matthew Cook (Diesel), Omar J. Dorsey (Moon Man), Louisa Krause (Zoe), Melissa Bolona (Lina), Paul Schrader (il greco).  Distribuzione: Altre Storie – Durata: un’ora e 33 minuti

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