Cannes 2017 – 3: “Wind River” di Taylor Sheridan

di Renato Venturelli

Lasciamo da parte il concorso: il film che mi è piaciuto di più in questa terza giornata è passato al Certain Regard, s’intitola The Wind River ed è un classicissimo film di genere americano, dallo spirito un po’ settantesco, tra western e poliziesco, con un grande Jeremy Renner protagonista. Il suo ruolo è quello di un cacciatore solitario dei giorni nostri, che si aggira tra i territori innevati del Wyoming e le sue foreste per cacciare puma e lupi che hanno assalito comunità e allevamenti della zona. Abituato a scrutare indizi, seguire tracce, cogliere segni invisibili ai più, quando s’inoltra in territorio indiano per seguire un puma trova invece il cadavere di una ragazza, morta con i polmoni scoppiati per il freddo, a piedi nudi, con segni di violenza sul corpo. Ad occuparsi delle indagini dovrebbe essere una giovane agente dell’Fbi assolutamente inesperta della zona, e del resto le stesse autorità indiane sono pochissime e distribuite su un territorio immenso: l’indagine diventa così una questione molto concreta e molto fisica, tra scenari di frontiera, dove un cantiere può improvvisamente rivelarsi un inferno e la legge è ancora una nozione imprecisa.  “Il cervo viene sbranato da un lupo non perché era sfortunato, ma perché era debole”. Un bel film solido, un po’ squadrato narrativamente, ma con un bel senso del paesaggio, della costruzione dei personaggi, con Jeremy Remer affiancato da Elizabeth Olsen e Gil Birmingham: scritto e diretto dal 47enne texano Taylor Sheridan, sceneggiatore di “Sicario” e “Hell or High Water”.

Nel concorso, invece, passa “The Square” di Ruben Ostlund, lo svedese di “Forza maggiore” che qui costruisce un altro dei suoi meccanismi glacialmente impeccabili, tutti concepiti a tavolino, in parte specchio di quello stesso mondo che rappresentano. Stavolta il protagonista è il direttore di un museo d’arte contemporeanea, perfettamente a suo agio tra i giochini intellettualistici delle sue mostre e del suo lavoro, ma che un giorno viene derubato di portafoglio e cellulare, cominciando così a veder di colpo vacillare il suo mondo di certezze: fino a restarne completamente travolto. Il film costruito da Ostlund è spesso stucchevole nel suo meccanismo sarcastico, ma ha anche momenti di indubbia forza scenica: compresa la sequenza culminante, al tempo stesso facile eppure di notevole impatto, con un performer primitivista che si aggira tra i tavoli di un ricevimento ufficiale, minacciando e aggredendo i commensali in modo sempre più violento.

Da segnalare, alla Quinzaine, l’appassionato “The Rider” dell’americana di origine cinese Chloe Zhao, film piccolo e diseguale su un giovane cowboy del South Dakota, che viene disarcionato e travolto durante un rodeo, finisce in coma all’ospedale e torna poi a casa col divieto di poter ancora cavalcare. Nella scia degli spostati e degli ultimi buscadero, il film segue così tra finzione e attrazione semi-documentaristica le sue giornate da “convalescente”, impossibilitato a fare l’unica cosa che conti nella sua vita: addestrare e domare cavalli. Un’opera malinconica e accorata su un cowboy moderno, sulla sua determinazione a non cedere, a non finire alla deriva come il padre, e anche sul suo parallelismo con i cavalli condannati ad essere abbattuti quando non possono più correre liberamente nelle praterie.

E fuori concorso s’è visto anche l’ultimo Barbet Schroeder di “Le venerable W“, terzo film di una trilogia cominciata coi documentari su Idi Amin Dada e su Jacques Vergès, “l’avocat de la terreur”. A sconvolgere Schroeder è come una religione tollerante e volta al dialogo come il buddhismo (una “religione laica”, la definisce, dicendosi da sempre interessato al buddhismo) abbia potuto produrre una figura come il monaco birmano Wirathu, che deve la sua enorme popolarità alla violentissima campagna anti-islamica scatenata nella sua regione. Paladino della difesa della razza, della religione e del nazionalismo contro l'”invasore” islamico, Wirathu ispira e guida i massacri nei confronti della popolazione Rohyingya, testimoniati nel film da immagini di repertorio di particolare efferatezza: a differenza di “L’avocat de la terreur”, dove il ragionamento sul male da parte di Schroeder si arricchiva di mille sfumature, qui le posizioni sono molto più nette, meno articolate, e il film assume quasi i tratti dell’opera di denuncia, per quanto il regista cerchi il più possibile di non intervenire e di mantenere uno sguardo apparentemente distaccato davanti al materiale mostrato.

 

Postato in 70 FESTIVAL DI CANNES 2017.

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