“L’altro volto della speranza” di Aki Kaurismäki

di Aldo Viganò.

Con il trascorrere degli anni, film dopo film (e sono ormai 17 lungometraggi più 10 cortometraggi), il finlandese Aki Kaurismäki rivela sempre più di essere uno dei pochi registi contemporanei in possesso di uno stile, di un tono e di una personale visione della vita. L’altro volto della speranza, con il quale l’ormai sessantenne regista riporta la propria cinepresa nella zona del porto di Helsinki, non fa certo eccezione; certificando la piena legittimità dell’Orso d’argento attribuitogli all’ultimo festival di Berlino.

Come nel precedente Miracolo a Le Havre, nel suo ultimo film Kaurismäki intreccia due storie per parlare insieme d’immigrazione (là era un ragazzino di colore che cercava di raggiungere la famiglia dall’altra parte della Manica, qui un uomo dall’aspetto aristocratico in fuga dalla Siria, capitato quasi per caso a Helsinki in una stiva piena di carbone, dopo di aver perduto la sorella durante la lunga fuga attraverso l’Europa)  e di un percorso esistenziale (là quello di un anziano lustrascarpe con moglie in ospedale per cancro, qui un maturo commerciante che lascia la moglie alcoolizzata, vende tutto e con il ricavato va in una sordida sala giochi clandestina, dove vince a poker la grossa somma che gli permette di realizzare il sogno di diventare padrone di un ristorante, pur scalcinato e con tre dipendenti di fragile professionalità).

Intervallate “dal vivo” da piacevoli inserti musicali, che sembrano provenire dalla giovanile passione di Kaurismäki per il rock anni Ottanta (basti pensare al doppio Leningrad Cowboys), le due storie per un po’ procedono parallele, poi s’intrecciano, viaggiando insieme verso un doppio (possibile) happy-end, dal sapore insieme – come sempre accade nell’opera del regista finlandese – onirico e melanconico.

Impegno sociale, adesione al mondo degli ultimi, amore dichiarato per i propri personaggi. Sono queste le costanti tematiche del cinema di Kaurismäki, il quale le sa poi trasformare in una personale cifra stilistica, attraverso un ritmo figurativo che non sembra avere mai fretta e immagini iper-realistiche che ricordano sempre più da vicino quelle della pittura di Edward Hopper, proponendosi quale sintesi poetica dello struggente sentimento che anche l’artista statunitense provava per i propri personaggi e che esprimeva in una dichiarazione che potrebbe essere fatta propria anche dal cineasta  finlandese: «Io non dipingo (non giro) quello che vedo, ma quello che provo».

Uno stile, quello evidenziato compiutamente anche in L’altro volto della speranza, che trasforma gli interni colorati, così come gli esterni naturali (si vedano le belle e “fredde” immagini dedicate al porto di Helsinki) in un qualcosa che comunica allo spettatore un forte senso di inquietudine, un’inquietudine quasi metafisica, senza negare, però, mai quel particolare tono che compiutamente appartiene ad Aki Kaurismäki e a quel suo saper coniugare sullo schermo il tragico e il comico, la sconfitta esistenziale e il trionfo del caso. Un caso che riesce comunque a condurre queste esistenze individuali verso un possibile happy-end. E ciò nonostante lo squallore dell’habitat dei personaggi; la violenza gratuita e ottusa degli skinheads che pattugliano anche le strade finlandesi; i pur gentili burocrati dei locali uffici per l’immigrazione che infine respingeranno la domanda di asilo politico avanzata dal protagonista, perché la sua città d’origine, la martoriata Aleppo, è secondo il loro insindacabile giudizio, “un luogo dove non si vive male”.

È proprio attraverso questo tono tragicomico che  L’altro volto della speranza si fa apprezzare come un film capace di coniugare umanesimo e denuncia sociale. Un film giudicato da qualcuno come un po’ troppo “algido”, ma che non ha bisogno di effetti speciali o di “spieghe” moralistiche per arrivare al cuore e alla mente dello spettatore, il quale viene invitato non tanto a identificarsi nei personaggi, quanto ad amarli per quello che sono, trovandosi così sollecitato a conoscere in modo più compiuto il proprio simile.

Buoni o cattivi che siano, quelli che passano sullo schermo sono comunque degli esseri umani, che la cinepresa  di Kaurismäki coglie  all’interno di una autentica contemporaneità rivisitata dal soffio dell’arte e in cui, nonostante tutto (lo squallore  dei luoghi, le strade deserte e il cielo sempre grigio, la povertà e la paura, la violenza e la solitudine), la leggerezza dello sguardo cinematografico dell’autore finlandese riesce compiutamente a convincerci che gli uomini tutti sono meritevoli di un mondo migliore, il quale è comunque possibile (happy-end docet) anche se per ora resta solo una speranza, il sogno di chi lotta, confortato dalla solidarietà di alcuni altri, affinché il presente non corra il rischio di  essere “disumanamente” travolto dalla non facile realtà quotidiana.

 

L’ALTRO VOLTO DELLA SPERANZA

(Toivon tuolla puolen, Finlandia, 2017)  Regia e sceneggiatura: Aki Kaurismäki – Fotografia: Timo Salminen – Scenografia: Markku Pätilä – Montaggio: Samu Heikkilä.  Interpreti: Sherwan Haji (Khaled Ali), Sakari  Kuosmanen (Waldemar Wikstrom),  Ikka Koivula (Calamnius), Janne Hyytiäinen (Nyrhinen), Nuppu Koivu (Mirja), Tommi Korpela (Melartin),  Simon Hussein Al-Bazoon (Mazdak). Distribuzione: Cinema – Durata: un’ora e 38 minuti

 

 

Postato in Recensioni di Aldo Viganò.

I commenti sono chiusi.