Dennis Lehane e “La legge della notte”

di Pasquale Pede.

Con La legge della notte per la seconda volta Ben Affleck sceglie di portare sullo schermo un romanzo di Dennis Lehane. La prima era stata per il suo esordio dietro la cinepresa, con Gone Baby Gone, tratto da La casa buia, un romanzo del ciclo sull’investigatore di Boston Pat Kenzie.

Bisogna aggiungere che Lehane era già stato notato da due maestri come Clint Eastwood e Martin Scorsese, i quali avevano trasposto rispettivamente Mystic River e Shutter Island, in due film di serie A. Nel 2014 poi, Michael R. Roskam aveva girato un ottimo noir da un suo racconto, The Drop (poi trasformato nel romanzo Chi è senza colpa), ultimo film per James Gandolfini. Questo per dire quanto lo scrittore di Boston abbia suscitato interesse fra gli autori di cinema, diventando l’autore di noir americano più frequentato da Hollywood.

Stavolta si tratta di un romanzo storico sul gangsterismo degli anni 20. Seguendo la traiettoria del giovane Joe Coughlin, piccolo delinquente del sottobosco criminale di Boston, dalle rapine alla prigione e al grande traffico di alcol in Florida, traccia un affresco dell’America degli anni ruggenti, fra proibizionismo, età del jazz, capitalismo aggressivo e corruzione dilagante. Una storia di grande respiro, che attraverso le vicende di alcuni personaggi ambisce a ritrarre un’intera epoca, adottando un tono fra l’epico e il romantico, che ricorda le atmosfere di C’era una volta in America di Leone. Il romanzo prosegue la direzione intrapresa nel 2008 con Quello era l’anno, altra vicenda che ritrae avvenimenti realmente accaduti a Boston negli anni 20, durante il primo grande sciopero della polizia americana. E’ evidente in questi romanzi l’ambizione di dipingere un quadro di storia americana, lo si coglie dall’accuratezza della ricostruzione, dall’attenzione al contesto sociale e all’asprezza delle lacerazioni che in quegli anni solcavano il paese. Sono gli anni del gangsterismo, delle lotte sindacali sanguinose, del Ku Klux Klan e del crac in borsa, gli stessi che furono alveo della hard boiled school di Hammett & co.- e Lehane li sceglie perché anche lui li considera ancora oggi un periodo cruciale per studiare e l’evoluzione della società americana.

Il romanzo è senz’altro avvincente e dotato di una sua forza, anche se non sembra si possa parlare, come qualcuno ha fatto, del tanto invocato “grande romanzo americano”. Sono comunque evidenti la serietà e la passione dello sforzo di Lehane, e il risultato è una storia avvincente, a tratti potente (specie nella parte carceraria) e dei personaggi che conquistano dalle prime pagine .

La stessa serietà e la stessa passione sono presenti nei suoi altri romanzi fuori serie, specie nei già citati Mystic River-La morte non dimentica, e L’isola della paura (Shutter Island).

Il primo è una dolente elegia sulla perdita dell’innocenza, e, come sa chi ha visto lo splendido film di Eastwood, narra la storia di tre personaggi a partire da un traumatico episodio della loro infanzia, quando uno dei tre fu rapito e abusato da tre poliziotti. I tre amici seguono strade diverse, ma alcuni fatti di sangue intrecceranno di nuovo le loro vite e si risolveranno tragicamente, come se la violenza subita nel passato piombasse di nuovo su di loro come una maledizione a cui non ci si può sottrarre. Un libro non meno intenso del capolavoro eastwoodiano.

Il secondo, ambientato nel secondo dopoguerra, vede un agente federale che deve condurre un’inchiesta su una ragazza scomparsa, recandosi su un’isola sede di un cupo manicomio, al cui interno si scontrano due tendenze opposte della cura psichiatrica. Un libro singolare, quasi neo-gotico, che unisce una descrizione non banale del dibattito psichiatrico di allora, comprese le sue implicazioni etico filosofiche, una costruzione del plot magistrale che gioca con molteplici piani diegetici, un continuo gioco di specchi tra realtà e delirio, infine una articolazione della suspense infallibile che ne fa un autentico thriller mozzafiato, di quelli che non puoi lasciare finché non si arriva all’ultima pagina. Il film che ne ha tratto Scorsese, pur sontuoso nella messa in scena per la fotografia, l’ambientazione, e le prove attoriali, e virtuosistico nella regia capace di grande impatto visivo, in definitiva risulta abbastanza superficiale e si risolve in un’occasione sprecata.

Anche Chi è senza colpa riserva motivi di interesse. E’ un romanzo cupo, ambientato nella Boston malfamata dei traffici illegali e della piccola malavita. Intreccia le storie di alcuni personaggi di mezza tacca, due cugini più o meno falliti, un poliziotto in disgrazia e una ragazza solitaria che, in seguito a una rapina organizzata da un paio di balordi nel bar gestito dai primi due, vengono coinvolti in una vicenda più grande di loro. Si tratta di una storia tesa e magistrale, ambientata in una città notturna e violenta, i cui personaggi sono tutti dei perdenti e da cui emerge un ritratto desolato e senza redenzione della città.

Insomma, sembra che in queste opere Lehane riponga le sue maggiori ambizioni e la sua voglia di sperimentare varie formule narrative. Per quanto riguarda invece il ciclo dedicato alle indagini della coppia di investigatori bostoniani – Un drink prima di uccidere, La casa buia, Buio prendimi per mano, Moonlight Mile etc. – i romanzi non si discostano dalle formule dell’hard boiled aggiornato agli anni 90 praticato da molti autori della sua generazione come A. Vachss o R. Crais.

I protagonisti sono Pat Kenzie e la sua compagna Angie Gennaro, e agiscono a Boston. Sono nati e cresciuti in quartieri proletari, e si muovono come pesci nell’acqua nel sottobosco di miserie e violenze che fa da sfondo alle loro indagini: droga ovunque, gang di strada, polizia corrotta, mafia russa, pedofilia e altri abomini sono realtà che conoscono perfettamente, proprio per questo sanno come combatterle.

I due si pongono come esplicita antitesi a questo contesto di degradazione e malvagità, e in ciò riprendono la famosa indicazione di Chandler, che vedeva il detective come principio di redenzione all’interno di una società dove il male trionfa. Pertanto le loro indagini possiedono una dichiarata dimensione etica, ed essi sono ogni volta chiamati a discendere nei gironi dell’inferno urbano contemporaneo mettendosi in gioco in prima persona, rischiando la vita e a volte la propria identità.

E’ chiaro che Lehane si identifica in questa tensione morale, prova ne sia il suo sguardo attento alle contraddizioni sociali e il suo porsi sempre dalla parte degli sfruttati e degli esclusi. Tale sincerità di ispirazione gli va riconosciuta. Tuttavia questo ciclo non si sottrae a certi cliché dell’hard boiled contemporaneo che appaiono alquanto discutibili. Queste formule furono introdotte da un autore sopravvalutato ma molto importante nell’aggiornamento del genere. Mi riferisco a Robert B. Parker, che negli anni 70, col ciclo sul detective di Boston Spenser, diede il là a una nuova voga di questa tradizione languente.

Esse si possono riassumere in un processo di esplicitazione e di ipertrofia di quei motivi che nella antica scuola dei duri erano sempre stati impliciti e espressi per ellissi. Parker emerse in un periodo in cui la cultura accademica rivolse la sua attenzione alla produzione di genere, ed egli stesso scrisse una tesi di laurea dal titolo: The Violent Hero, Wilderness Heritage and Urban Reality: A Study of the Private Eye in the Novels of Dashiell hammett, Raymond Chandler and Ross Macdonald.

Da quel periodo ogni storia che si rifacesse all’hard boiled presentava invariabilmente alcune caratteristiche. La violenza diventa centrale e spinta all’estremo; sia quella perpetrata dai “cattivi”, i cui dettagli più efferati non ci vengono risparmiati, sia quella a cui deve ricorrere l’eroe, che pertanto deve essere fisicamente attrezzatissimo alla bisogna. Abbiamo così detective palestrati e micidiali, e la loro indagine si risolve in uno scontro diretto con gli antagonisti, tanto che le vicende finiscono con l’assomigliare a un fumetto di supereroi che se le danno di santa ragione più che alla ricerca di un colpevole. In più, curiosamente, sembra indispensabile che essi abbiano un alter ego ancor più micidiale, spesso ai limiti della legge, a dargli man forte quando il gioco si fa duro. Nel caso di Lehane questo collaboratore è Bubba, un colossale sociopatico di origine polacca, una vera macchina da guerra. Si tratta di un aspetto singolare: è come se la violenza dei buoni, che nell’eroe deve essere tenuta a freno per i suoi principi morali, dovesse esprimersi in modo scisso in questi “doppi” senza scrupoli nello scatenarla. Questa accentuazione sembra inevitabile, e indubbiamente contribuisce all’aspetto spettacolare delle vicende, ma non è tanto chiaro se in tal modo la condanna della violenza non ne diventi un’esaltazione sotterranea.

Poi c’è l’ipertrofia del dialogo. Questi detective parlano molto. Sono logorroici e saccenti, mai a corto di battute e pronti al pistolotto morale per chiarire al lettore che loro hanno dei buoni motivi per fare quello che fanno e che il marciume che combattono non lascia scampo. In tal modo va a farsi benedire lo stile laconico e abrasivo, tutto in levare, che conferiva un sapore inimitabile alle storie di Hammett & co. Il risultato è brillante, ma a volte diventa stucchevole, come nei dialoghi amorosi fra Pat Kenzie e la sua compagna. Infine, tale tendenza all’ipertrofia si riflette nell’impostazione stessa delle storie: le dimensioni di questi libri di rado sono inferiori alle 400 pagine, le vicende sono intricatissime e il tono generale tende costantemente all’apocalittico, con morti a bizzeffe, scontri epocali e finali multipli.

E’ impossibile in questa sede esplorare i motivi di queste tendenze, ma in definitiva ciò che conta è che il risultato, per quanto abile o avvincente, ha un qualcosa di costruito, di omogeneizzato. Per quanto appesantita da simili fardelli tuttavia, l’hard boiled di Lehane è ampiamente godibile e spesso appassionante, poiché vi si coglie la sincerità dell’autore, quanto egli creda ai suoi personaggi e alle sue storie, e quanto impegno riversi nel descrivere in modo mai banale il contesto sociale che ad esse fa da sfondo. Non resta che seguire con fiducia gli sviluppi della sua opera, poiché sicuramente avrà nuovi modi di appassionarci.

 

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