“La battaglia di Hacksaw Ridge” di Mel Gibson

di Aldo Viganò.

Erano dieci anni (da Apocalypto, 2006) che Mel Gibson non tornava dietro la cinepresa in veste di regista. Nel frattempo, ha interpretato come attore un pugno di film dal discontinuo esito commerciale ed è alquanto ingrassato con l’avanzare dell’età, avendo ormai superato la sessantina. Ma l’uscita di La battaglia di Hacksaw Ridge testimonia che in fin dei conti gli anni per lui non sembrano passati e che, soprattutto, poco o nulla è cambiato nel suo modo di pensare e di fare del cinema.

Dal punto di vista tematico, infatti, l’argomento resta qui sempre (come in Bravehart o in La passione di Cristo) lo stesso: quello dell’uomo singolo votato (pur tra diversi avvenimenti storici) al dolore rigenerante e al sacrificio personale, mentre su quello più propriamente estetico Mel Gibson si conferma autore di un cinema insieme tecnologico e classico, energico ma fondamentalmente elementare. Il tutto finalizzato a fare dello spettacolo e a mettere in scena la natura infernale di un mondo, che rimane sempre lo spesso nel quale il protagonista (con cui lo spettatore viene invitato a identificarsi) svolge insieme, più o meno consapevolmente, il contradditorio ruolo di Vittima e di Salvatore.

Ambientato tra le due guerre mondiali, dapprima in Virginia e poi a Okinawa, La battaglia di Hacksaw Ridge è tratto da “una storia vera”: quella del giovane Desmond Doss – figlio di un reduce della Grande Guerra e di una seguace degli Avventisti del Settimo Giorno – che, arruolatosi volontario in un corpo combattente, divenne il primo obiettore di coscienza dell’esercito statunitense e anche l’unico soldato della Seconda Guerra Mondiale decorato senza aver sparato un colpo, ma per aver portato in salvo, in veste di assistente medico, settantatre commilitoni fatti a pezzi dai giapponesi, che qui hanno una funzione narrativa simile (tra zombies allucinati e “ombre gialle” senza pietà) a quella che nel western classico avevano i pellerossa.

Ma, pur intriso di dichiarata ideologia pacifista e di metaforica volontà di raccontare il percorso interiore di un “toccato da Dio” gettato nell’inferno della guerra, quello di Mel Gibson non è un film ideologico. La natura elementare (qualcuno ha scritto “primitiva”) del suo cinema lo porta infatti a ignorare sia la dialettica forza narrativa di Spielberg (Salvate il soldato Ryan) o  di Eastwood (Lettere da Iwo Jima), sia le stucchevoli tentazioni poeticizzanti di Malick (La sottile linea rossa), e a coniugare il suo “guerra e pace” sul versante di un cinema quasi da serie B (nonostante l’ampiezza degli investimenti commerciali e dei mezzi economici profusi nelle scene d’azione), con personaggi velocemente tratteggiati (la famiglia di Desmond e la fidanzata infermiera) e con rapporti interpersonali tendenzialmente lontani dal facile psicologismo.

Ne risulta così un film un po’ “barbaro”, magari anche schematico e a volte banale, ma dotato comunque di un’apprezzabile forza spettacolare pur nel suo essere in prevalenza coniugato sul volto del suo protagonista (quello stesso Andrew Garfield, che quasi contemporaneamente ha interpretato anche Silence di Scorsese in una parte per molti versi simile), il quale – dopo una prima parte sin troppo sentimentale, ma non priva di efficace sintesi narrativa – viene nella seconda metà del film condotto nell’inferno della battaglia di Okinawa e più precisamente in quello della storica presa della “cresta” rocciosa di Hacksaw testardamente difesa dai giapponesi, nel maggio 1945.

In questa ricostruzione, tra il fuoco dei lanciafiamme e quello martellante delle mitragliatrici o del cupo cannoneggiamento navale, tra i corpi sbudellati dalle baionette o frantumati dalle bombe a mano, Mel Gibson conduce così Desmond (e con lui lo spettatore) ad avere un’esperienza diretta della natura demoniaca della guerra; ma, nello spesso tempo, tramite il comportamento del suo protagonista, ci immerge ancora una volta (proprio come in quasi tutti i film precedenti di Gibson) in un universo contradditorio  dove la diabolica tentazione di uccidere può convivere con la cristiana tenacia di colui che assume il ruolo del “salvatore”, dove il sangue e le urla di dolore richiamano le funzioni rigenerative della morfina o dei lacci emostatici, cui fa ricorso l’infaticabile e imperturbabile Desmond, del quale prima dei titoli di coda scorrono sullo schermo le “vere” immagini e le scritte informative attinenti ai lunghi anni (il vero Desmond morirà nel 2006) trascorsi dopo quegli avvenimenti che gli hanno segnato la vita e che Gibson racconta in un film “a modo suo”, coniugato questa volta tra la tradizione del “biopic” e il personale piacere di fare (“a modo suo”) del cinema.

 

LA BATTAGLIA DI HACKSAW RIDGE

(Hacksaw Ridge, USA-Australia, 2016)  Regia: Mel Gibson – Sceneggiatura: Andrew Knight e Robert Schenkkan – Fotografia: Simon Deggan – Musica: Rupert Gregson-Williams – Scenografia: Barry Robison – Montaggio: John Gilbert. Interpreti: Andrew Garfield (Desmond T. Doss), Teresa Palmer (Dorothy Schutte), Vince Vaughn (serg. Howell), Sam Worthington (cap. Glover), Luke Bracey (Smitty Riker), Hugo Weaving (Tom Doss), Rachel Griffiths (Bertha Doss). Distribuzione:  Eagle Pictures  – durata: due ore e 19 minuti

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