“Jackie” di Pablo Larraín

di Aldo Viganò.

Il tailleur rosa destinato a macchiarsi del sangue del Presidente, l’immancabile collana di perle, i laccati capelli castani che incorniciano il volto ben truccato: il film Jackie (cioè Jaqueline Bouvier Kennedy) del cileno Pablo Larraín rispetta la storica iconografia della “First Lady” degli Stati Uniti nei primi anni Sessanta; ma, come già era accaduto nel precedente Neruda, il regista non si accontenta di realizzare solo un elegante “biopic”, ma dichiara subito la propria ambizione di proporre sul grande schermo un opera di più ampie valenze interpretative.

Quasi tutto raccolto nell’arco dei  tre giorni che separano l’assassinio a Dallas di John Fitzgerald Kennedy (22 novembre 1963) dalla sua tumulazione nel cimitero nazionale di Arlington in Virginia, Jackie racconta soprattutto la storia di una donna famosa e ancora giovane (Jaqueline aveva allora trentaquattro anni), che seppe reagire con determinazione alla disgrazia; la storia di una moglie e madre dall’aspetto di “bambola”, che nel triennio trascorso alla Casa Bianca la trasformò in una dimora da favola (la “sua” Camelot, come ebbe occasione di denominarla al tempo in cui a Broadway trionfava il musical dedicato alla reggia di Re Artù), e che, dopo la tragedia famigliare, si fece tenace protagonista della creazione del mito del marito, organizzandogli, da sola contro tutti, un funerale consapevolmente ricalcato su quello di Abraham Lincoln.

Il tema aveva indubbiamente potenziali suggestioni d’autore, destinate ad andare al di là della cronaca di quei giorni, coinvolgendo il rapporto tra realtà e immaginazione, tra lo svolgimento dei fatti e la loro narrazione: dicotomie, come del resto anche quella tra Storia e Cinema, che lasciano potenzialmente al loro interno un ampio spazio per la creatività registica, ma che Larraín non riesce sempre ad approfondire in modo adeguato, preferendo ricorrere a una cornice narrativa di comodo (l’intervista di un giornalista alla ex First Lady) e strizzando l’occhio alla moda attuale di un racconto che vuole la frantumazione cronologica dei fatti anche quando non ce ne sarebbe affatto bisogno.

Accade così che il film – come del resto i suoi attori scelti e truccati per somigliare anche fisicamente ai personaggi storici che sono chiamati a interpretare – corra sovente il rischio di un effetto “museo delle cere”, certificato anche dal fatto che il problematico racconto, non è adeguatamente assecondato dalla cinepresa, che sul piano linguistico finisce con il raggelarlo nel privilegio concesso soprattutto alle immagini fisse o ai lenti carrelli in avanti su volti silenziosi.

È probabile che proprio questo effetto di imbalsamazione di personaggi storici abbia contribuito ad accreditare il film di  Larraín di valenze culturali profonde, ma al cinéphile resta infine la sensazione di un’operazione fondamentalmente irrisolta, caratterizzata da uno stile freddo e un po’ scostante; fondamentalmente uno stile senz’anima, nonostante l’abnegazione con cui Natalie Portman aderisce al proprio personaggio, e l’emozione di assistere all’ultimo film interpretato da John Hurt, nel ruolo  dell’anziano gesuita al quale Jackie si rivolge per avere un conforto al suo lutto.

 

JACKIE

(Jackie, USA e Cile, 2016) Regia: Pablo Larraín – Sceneggiatura: Noah Oppenheim – Fotografia: Stéphane Fontaine – Musica Mica Levi – Scenografia: Jean Rabasse – Montaggio: Sebastian Sepulveda. Interpreti: Natalie Portman (Jacqueline Kennedy), Peter Sarsgaard (Robert Kennedy), Greta Gerwig (Nancy Tuckerman), – Billy Crudup (Theodore H. White), John Hurt (padre Richard McSorley), John Carroll Lynch (Lyndon B. Johnson), Caspar Phillipson (John Fitzgerald Kennedy). Distribuzione: Lucky Red – Durata: un’ora e 35 minuti

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