“Un padre, una figlia” di Cristian Mungiu

padre-ritagliato-1di Aldo Viganò.

C’è sempre qualcosa di un po’ rigido e di eccessivamente programmatico nel cinema del romeno Cristian Mungiu; ma forse proprio per questo i suoi film piacciono così tanto agli accademici e alle giurie dei festival internazionali. Sovente più che ai “cinéphiles”. Ciò nonostante (lo dico subito onde evitare equivoci) il quarantottenne regista di 4 mesi, 3 settimane e 2 giorni e di Oltre le colline resta uno degli autori cinematografici europei contemporanei più interessanti, e non solo tra quelli formatisi dopo il disfacimento dell’ex-Unione Sovietica.

È proprio di questo passaggio epocale, con il suo residuo di delusioni sociali e di frustrazioni personali, che parla in prima battuta  Un padre, una figlia. Lui, il padre, è un medico di provincia, tornato con la moglie in Romania sull’onda della speranze suscitate dalla caduta di Ceausescu e ora prigioniero di un degrado economico e morale dal quale cerca di fuggire riponendo tutte le sue speranze nel futuro della figlia. Lei, la figlia, è una studentessa modello giunta ad affrontare l’esame di maturità (il “Bacalaureat” del titolo originale) che, superato con la buona votazione data da tutti per scontata, gli aprirà la via per una borsa di studio alla prestigiosa Università di Cambridge. Il padre attende quel giorno come un riscatto anche personale. Il fidanzato della ragazza, istruttore di scuola guida, preferirebbe forse una più tranquilla vita comune in patria. La madre, bibliotecaria depressa e cornificata, programma comunque di lasciare il marito e di seguire la figlia in Inghilterra. La ragazza modello sembra adeguarsi agli eventi. Ma la vita, si sa, prende sovente strade impreviste rispetto a quelle tracciate dai progetti individuali. E anche il film di Mungiu chiarisce quasi subito che al centro del racconto non sta tanto l’assunto narrativo in superficie, quanto i problemi morali che gli eventi imprevisti possono porre a chi personalmente li vive. Ecco, quindi, che proprio il giorno dell’esame la figlia viene aggredita vicino a scuola da uno sconosciuto e, anche se ciò non ha comportato gravi conseguenze fisiche,  la ragazza affronta la prova con esiti inferiori alle attese. Di conseguenza, il padre, temendo il fallimento della figlia e pertanto anche delle proprie speranze, cerca di reagire, entrando ben presto in un degradante tunnel caratterizzato dalla ricerca di raccomandazioni e di appoggi da parte anche di chi appartiene a quella classe sociale e a quel mondo caratterizzato dall’arte di arrangiarsi  che egli ha sempre disprezzato. Da personale il racconto intimo e privato impostato dal film si allarga sino a diventare così quasi subito universale, esplicitando quell’eccesso di programmaticità che ricordavo essere una caratteristica del cinema di Mungiu; ma nel contempo compensando la ossessiva riduzione monotematica dei personaggi con una crescente attenzione al rigore della composizione estetica delle immagini.

Nell’epoca dei blockbuster cinematografici e del loro privilegio dell’azione fine a se stessa, il film di Mungiu sceglie così, consapevolmente, la via opposta, riducendo all’essenziale i movimenti della cinepresa, privilegiando lo svolgimento del racconto in lunghi piani sequenza sovente silenziosi, soprattutto facendo modo che il problema morale del rapporto tra privato e sociale si esplichi più attraverso il non detto che da ciò che viene esplicitamente enunciato. A questo punto poco importa sapere e raccontare come andranno veramente a finire gli eventi: la figlia riuscirà a superare l’esame? il padre porterà a termine la sua progressiva caduta nel mondo della corruzione etico-sociale? Mungiu non avverte il bisogno di dirlo. Quello che gli interessa raccontare sembra in realtà tutt’altro: cioè, interrogarsi sui rapporti tra i valori etici degli uomini e la loro possibilità di rimanervi fedeli anche nel contesto di una realtà degradata come quella della Romania, avvertendo comunque che  questi interrogativi valgono anche per  qualsiasi realtà sociale e appartengono forse all’essere umano in quanto tale. È così che Un padre, una figlia sceglie con rigore (sino ad arrischiare il pamphlet filosofico e far sfiorare allo spettatore i confini della noia) la via dello sguardo “classico” sulla realtà: inquadrature scelte con cura e sempre significanti, montaggio ridotto all’essenziale, stacchi dettati solo dal procedere della riflessione morale. Con il risultato, aggiunto, che il non detto assume la funzione di complicare la realtà creandovi all’interno la “suspense”, senza bisogno di ricorrere a emotivi colpi di scena. Ed è così, appunto, che Un padre, una figlia diventa in modo originale un’opera appassionante. Molte cose nel film di Mungiu vengono dette sui fatti e sui personaggi, ma molte di più vengono affidare solo alla valutazione dello spettatore. La depressione della moglie-madre, ad esempio, nasce probabilmente dal tradimento del marito, ma certo non solo da questo. Il ragazzo della figlia era o non era colui che le telecamere di sorveglianza hanno ripreso nell’atto di allontanarsi alla chetichella dal luogo in cui era in corso il tentativo di stupro da cui tutta la vicenda ha origine? Colui che lancia sassi alla finestra di casa del protagonista e rompe il vetro del cruscotto della sua macchina è o non è il figlio della professoressa amante del padre? Perché il protagonista torna sul luogo dove pensa di aver investito uno dei tanti cani randagi che si aggirano sulla strada che conduce alla sua abitazione e su quale cadavere (quello dell’animale o quello della sua onestà?) piange ora calde lacrime? Ecco, uno dei fascini (forse il principale, insieme all’ottima prova di tutti gli attori) di Un padre, una figlia mi sembra consistere proprio nel suo saper far convivere il contrasto tra la minuziosa analisi dei comportamenti dei suoi protagonisti  con le frange mai completamente sviluppate sullo schermo di esistenze comunque alla deriva. E di aver tratto da questo contrasto materia autentica e originale per un thriller della coscienza, dando così anche autentica vita cinematografica ad un assunto narrativo che il regista ha evidentemente costruito sin troppo a tavolino.

 

Un padre, una figlia

(Bacalaureat, Romania – Francia – Belgio, 2016)

Regia e sceneggiatura: Cristian Mungiu – Fotografia: Tudor Vladimir Panduru – Scenografia: Simona Paduretu e Anca Perja – Montaggio: Mircea Olteanu.

Interpreti: Adrian Titieni (Romeo, il padre), Maria-Victoria Dragus (Eliza, la figlia), Malina Malovici (Sandra), Lia Bugnar (Magda), Vlad Ivanov (ispettore capo).

Distribuzione: Bim – Durata: due ore e 8 minuti

 

 

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