Jerusalem International Film Festival 33 – Israele sullo schermo

ISRAELELapid2016di Massimo Lechi.

C’era molta attesa da parte di stampa, addetti ai lavori e cinefili israeliani per le anteprime nazionali proposte dai programmatori del Jerusalem International Film Festival (7 – 17 luglio 2016). I nomi erano di peso, in linea con la storia della manifestazione; il clima, dopo le tensioni dell’Intifada dei coltelli, favorevole alla mondanità spensierata.

Giunto alla trentatreesima edizione, il Festival, organizzato con il sostegno della Jerusalem Foundation, si è da tempo radicato nella vita culturale del paese come una delle vetrine cinematografiche più importanti. Qui, in piena estate, convergono i film mostrati in precedenza a Venezia, Cannes, Locarno e Berlino. Tutta la comunità si dà appuntamento nella Cinemateque fondata da Lia van Leer: è la passerella finale prima dell’incontro con il pubblico pagante delle sale di Tel Aviv e Be’er Sheva, oltre che il vero battesimo del fuoco, vista la nota intransigenza degli spettatori e dei critici locali. Mentre per i visitatori stranieri si presenta invece come un’occasione preziosa per scoprire le ultime tendenze di una delle cinematografie più vitali, e per entrare in contatto – seppur superficialmente – con la realtà mediorientale che la alimenta con i suoi continui cortocircuiti.

Certo, affermare che Israele possa rispecchiarsi fedelmente nel suo cinema è quantomeno azzardato – e l’ostilità incontrata sin dagli esordi dal grande Amos Gitai appare molto significativa in questo senso. Tuttavia è palese che i registi israeliani, da sempre fortemente concentrati sulle dinamiche politiche e storiche interne ai confini nazionali, si siano imposti – forse loro malgrado – soprattutto come testimoni, come cronisti più o meno attendibili di una società tanto lacerata e conflittuale quanto viva e ricca. Una società i cui contorni e sommovimenti, nel perenne scontro delle propagande contrapposte, continuano però a sfuggire nella loro complessità persino agli osservatori più attenti. Nonostante la quotidiana presenza di Benjamin Netanyahu nei media di tutto il mondo e la crescente fortuna della narrativa degli Yehoshua, degli Oz e dei Grossman, il piccolo stato ebraico è infatti ancora in larga parte un territorio misterioso, la cui rappresentazione esteriore è irrimediabilmente affidata a uno schizofrenico alternarsi di fulminee azioni belliche in campo lungo, ortodossi in preghiera, selvaggi party notturni e corpi abbronzati a mollo nel Mar Morto.

Cosa è possibile ritrovare oggi, sul grande schermo, della contradditoria realtà descritta da Ari Shavit nel suo magnifico saggio La Mia Terra Promessa? Tutto e niente. Frammenti da ricomporre, film dopo film. Israele non ha avuto un Kiarostami, un Anghelopoulos o un Ceylan sul quale sia stata costruita – e appiattita – la sua immagine, la sua identità. Cinematograficamente, vive di fiammate e spinte in apparente contrasto, che non possono che stupire, affascinare e lasciare interdetti.

Va da sé, dunque, che quest’anno, nel programma del Festival diretto dalla giovane Noa Regev, vi siano state proposte sorprendenti, anche per chi, forte di una discreta conoscenza d’insieme, si era ormai abituato a identificare il cinema israeliano tanto con l’impervia opera di Gitai quanto con recenti titoli di discreta notorietà festivaliera quali Mountain (2015) di Yaelle Kayam o con filmografie diseguali ma riconoscibili come quelle di Eran Riklis e Joseph Cedar.

Film come il curioso Our Father di Meni Yaesh, per esempio, hanno evidenziato la decisa volontà di molti registi di cimentarsi con il cinema di genere, battendo strade tutto sommato semplici, e spesso scontate, nel tentativo di trovare un contatto immediato con platee più vaste. Protagonista della pellicola è Ovadia (Moris Cohen, premio per la miglior interpretazione maschile nella competizione israeliana), che di giorno è un affidabile ebreo osservante con dolce ed esile moglie casalinga con problemi di fertilità, e di notte si guadagna da vivere come ringhioso buttafuori in un losco nightclub di Tel Aviv. Yaesh filma il suo massiccio picchiatore con kippah tra un consulto dal rabbino e un’improbabile scazzottata al rallentatore, inanellando un’impressionante serie di vieti luoghi comuni. Il senso di déjà-vu a tratti destabilizza, ma le lotte tra bande criminali ashkenazite e clan mafiosi sefarditi, di contro, hanno il fascino delle bizzarrie impreviste. Il tentativo di uscire da una banalizzata e banalizzante rappresentazione del paese limitata al conflitto con i palestinesi (uliveti, posti di blocco, bambini arabi scalzi) o ai riflessi dello stesso sulle vite degli israeliani comuni (lutto, insicurezza cronica, crisi di coscienza) ha portato, in questo caso, alla discutibile e avventurosa appropriazione dell’immaginario da noir audardiano e da gangster movie americano di serie B.

A metà strada tra simili operazioni e l’esoterismo del cinema d’autore duro e puro vi è poi una rispettabile serie di film intimisti, incentrati prevalentemente su famiglie in crisi e infarciti di buone interpretazioni e astuzie narrative. A questo filone appartengono due tra i titoli che maggiormente hanno segnato l’edizione del Festival. Il primo, Saving Neta, è stato accolto con calore e poderosi applausi, tanto da guadagnarsi l’Audience Favorite Award. Scritto e diretto da Nir Bergman, creatore della serie televisiva BeTipul – In Treatment, il film racconta in brevi episodi i problemi quotidiani di quattro donne sulle cui strade capita casualmente il misterioso e tormentato Neta  (Benny Avni).  Il secondo, One Week and a Day, vincitore del Premio Fipresci e del Premio Haggiag per il miglior film israeliano, racconta invece con umorismo stralunato e gusto per il paradosso il difficile ritorno alla vita di tutti i giorni di una coppia di genitori sconvolti dalla morte dell’unico figlio.

Storie israeliane in tutto e per tutto, sia il piatto Saving Neta sia l’opera prima di Asaph Polonsky mostrano un paese non troppo dissimile dall’Europa o dal Nord America: un Israele di strade trafficate ma sicure, e di quieti quartieri residenziali dove la guerra senza fine è racchiusa nelle foto incorniciate di figli militari in uniforme. E dove è il personaggio – con i suoi tormenti interiori e le sue incertezze – a generare il conflitto drammatico, e non il contesto.

Nulla a che vedere però con i grandiosi affreschi dell’universo ebraico sefardita firmati dai fratelli Elkabetz, esempi di scrittura tutt’oggi insuperati. Proprio Ronit Elkabetz, tra dediche, omaggi e celebrazioni, ha dominato il trentatreesimo Jerusalem Film Festival. Femminista, teatrante, attrice e filmmaker di straordinario spessore, appena due anni fa raccoglieva premi e consensi unanimi con Viviane (2014), uno dei migliori film israeliani di sempre. Scomparsa in primavera dopo una lunga malattia, con la sua “ingombrante” assenza ha ricordato a pubblico e industria quanto raro sia il talento.

Così, alla fine, a lasciare il segno più profondo – titoli internazionali e documentari a parte – è stato forse il film più personale e meno prevedibile: From the Diary of a Wedding Photographer di Nadav Lapid, già evento speciale all’ultima Semaine de la Critique di Cannes. Un enigmatico mediometraggio di quaranta minuti scarsi, incentrato sui frammenti del diario erotico-professionale di un torvo regista di filmini matrimoniali (Ohad Knoller, protagonista del dramma gay Yossi & Jagger di Eytan Fox) che, letteralmente, come da scarna sinossi del catalogo, fa fuggire una sposa e ne uccide un’altra. Fotografato con gelida perfezione dal talentuoso Shai Goldman (suo lo spettrale bianco e nero in Tikkun di  Avishai Sivan) e quasi interamente girato su una spiaggia sabbiosa, il film è un piccolo capolavoro di messinscena e manipolazione dei tempi cinematografici. Quello di Lapid, autore assai discusso in Israele nonostante alcuni riconoscimenti prestigiosi raccolti proprio a Gerusalemme con Policeman (2011) e The Kindergarten Teacher (2014), si conferma cinema altamente suggestivo, libero e sfuggente come la sposa in bianco interpretata dalla silfide Naama Preis, che si lancia in un ballo scattoso sulle note di una vecchia hit norvegese anni Ottanta. Un cinema al contempo sexy e cerebrale, capace di alternare accelerazioni furiose a ipnotici momenti di stasi, e in cui ogni inquadratura contiene un’invenzione di regia audacemente provocatoria. Un approccio astratto e irregolare a mezzo e racconto, che vale cento drammi artigianali dalla struttura rifinita e il respiro corto.

Di che dare senso a un festival e soddisfare i palati più esigenti.

Massimo Lechi

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