“I magnifici 7” di Antoine Fuqua

magnifici-7-130x90di Aldo Viganò.

Nel corso degli anni, i film western si distinguono anche dal rumore che fanno gli spari delle armi da fuoco: silenzioso ma con immancabile sbuffo di fumo nel cinema muto, tondo e ben definito nei decenni della classicità, sibilante e con lugubre eco nell’epoca dei prodotti “all’italiana”. Da qualche anno in qua, però, nel tempo dell’agonia del “genere”, complice probabilmente il “dolby digital”, quegli spari si sono fatti più meccanici e sempre meno umani, rimbombano dallo schermo soprattutto per farsi sentire nel vuoto delle idee più che per raccontare una storia di passione, di morte o di vendetta. Così accade immancabilmente anche in questo nuovo “remake” di I magnifici 7 firmato dall’anonimo Antoine Fuqua, regista che in questo caso sembra essere influenzato più da Sergio Leone che da John Ford.

La favola rimane fondamentalmente la stessa ideata in Giappone da Akira Kurosawa (e dai suoi co-sceneggiatori Shinobu Hashimoto e Hideo Oguni) nel 1954 e trasferita sei anni dopo da John Sturges  nel villaggio messicano di Ixcatlan, per diventare tra il 1998 e il 2000 anche un serial televisivo in 22 puntate: gli abitanti di un piccolo villaggio di confine, qui costruito in riva al fiume da pacifici coloni ora angariati  da un prepotente e sanguinario capobanda (un avido “capitalista” che ha messo gli occhi sul giacimento d’oro presente nei dintorni), chiedono aiuto  a sette professionisti, i quali, con diverse motivazioni (amore dell’avventura, amicizia reciproca, inconfessato desiderio di vendetta, ecc.), accorrono in loro aiuto e ingaggiano sul posto una furibonda battaglia da cui escono vincitori, pur costretti a lasciare nel cimitero locale quattro di loro.

Mescolando tragico e comico, da questa favola Kurawasa aveva ricavato un  film avventuroso, girato in gran parte nel fango, dal quale emergeva l’elogio etico e politico di una classe sociale angariata o decaduta, questa ben rappresentata dai samurai; mentre John Sturges aveva puntato – soprattutto nella prima parte del suo film (decisamente la migliore) – sulla definizione a tutto tondo di personaggi, ai quali il pubblico finiva con l’affezionarsi sino al punto di partecipare emotivamente con loro alla generosa battaglia contro il Male e in difesa degli uomini qualunque. Cosa combina ora Antoine Fuqua, qui in veste di regista, co-sceneggiatore e co-produttore?

Il suo film sembra poco interessato sia alle implicazioni sociali del racconto, sia alla costruzione nel suo interno di personaggi complessi, per puntare con decisione verso una semplice storia di vendetta (la donna che insieme con il suo cavaliere  servente ingaggia i pistoleri sembra interessarsi molto meno alle sorti del villaggio che alla memoria del marito ucciso davanti a lei dal capobanda) messa in scena tra lo scoppiettante fuoco d’artificio del colpi di pistola e con un retrogusto (ben poco sviluppato) a favore delle minoranze etniche, se è vero che dei sette a sopravvivere sono infine solo un nero (etnia alla quale appartiene anche il regista), un messicano e un indiano comanche.

C’erano una volta i film western, viene voglia di rimpiangere.  Sia che raccontassero prevalentemente in campo lungo un itinerario spazio-temporale (la corsa verso Ovest dei coloni, la trasmigrazione delle mandrie  verso la città, il viaggio sulla diligenza, la costruzione della ferrovia transcontinentale, ecc.) o che concentrassero l’azione in un luogo specifico da costruire o da difendere (la città, il ranch o il forte), questi film avevano sempre al centro l’uomo con le sue speranze, con i suoi sentimenti o passioni, con la sua aspirazione a dare un senso alla propria esistenza. Ora nel terzo millennio questo progetto narrativo è in parte sopravvissuto solo – con l’eccentrica eccezione di Quentin Tarantino – nelle tarde opere di attori al tramonto che hanno scelto di farsi registi: da Kevin Costner (Terra di confine) a Ed Harris (Appaloosa), da Billy Bob Thornton (Passione ribelle) a Tommy Lee Jones (Tre sepolture, ma quando arriverà anche il Italia il suo Homesman che tanto piacque ai “cinefili” di Cannes 2014?), per il resto, però, il western è diventato territorio di commerciali operazioni di “remake” rarissimamente interessanti (è il caso di Il Grinta dei fratelli Coen), quasi sempre deludenti come Quel treno per Yuma  di James Mangold  e L’assassino di Jesse  James … di Andrew Dominik (entrambi del 2007) o anche questo I magnifici 7, che traduce il suo dichiarato amore per il genere western nell’opera di un regista che sembra non aver mai visto un film di Ford, Hawks, Walsh o  Anthony Mann o che, peggio ancora, avendoli visti, li abbia ritenuti “vecchi” rispetto a quelli di Sergio Leone e compagni, per cui riempie il proprio film di arbitrari movimenti di gru dal basso all’alto, di primi piani insistiti, di roboanti colpi di pistola, dimenticandosi però di dare a tutto questo la funzione di definire un’azione o di far vivere i personaggi attraverso il loro comportamento.

Il vuoto di significato nel quale precipitano questi “magnifici sette” è certo colpa della povertà della regia, ma la responsabilità del fallimento va condivisa ed è anche, forse soprattutto, dell’approssimativa banalità di una sceneggiatura troppo spesso disposta a piegare il racconto alle esigenze dei più facili effetti narrativi: la mitragliatrice che entra in campo solo quando le sorti dei “cattivi” sembrano volgere al peggio, la lotta fratricida tra l’indiano “traditore” e quello schierato dalla parte del “bene”,  il colpo di fucile che pone fine alle malefatte del capobanda, anche l’esibito “decolté” della contadina in cerca di esecutori della sua vendetta. E così via elencando. Quasi si volesse dimostrare che hanno ragione i detrattori del western quando definiscono i suoi “eroi” come dotati di solo due espressioni (“con o senza il cappello”) o la drammaturgia di questo glorioso “genere” cinematografico riducibile al binomio “cavalli e pistole”. E per dare epicità al racconto non basta certo che la cinepresa di Fuqua riempia lo schermo di spari e di cadaveri, garantendo infine al protagonista la possibilità di allontanarsi a cavallo, da quel villaggio dove finalmente vendetta è stata fatta…

 

I magnifici 7

(The Magnificent Seven, USA, 2016)

Regia: Antoine Fuqua – Sceneggiatura: Richard Wenk e Nic Pizzolatto – Fotografia: Mauro Fiore – Musica: James Horner e Simon Franglen – Scenografia: Derek R. Hill – Costumi: Sharen Davis – Montaggio: John Refoua. Interpreti: Denzel Washington (Sam Chisolm), Chris Pratt (Josh Farraday), Ethan Hawke (Goodnight Robicheaux), Vincent D’Onofrio (Jack Horne), Lee Byung-hun (Billy Rocks), Manuel Garcia-Rulfo (Vasquez), Martin Sensmeier (Red Harvest), Peter Sarsgaard (Bartholomew Bogue), Haley Bennett (Emma Cullen). Distribuzione: Warner Bros. – Durata: due ore e 12 minuti

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