Ascanio Celestini tra cinema e teatro

celestinidi Paolo Borio.
Ascanio Celestini è un artista eclettico, uno tra i massimi esponenti della narrazione a teatro, autore di spettacoli e libri. E’ un affabulatore, un tessitore di storie che riesce a tenere assieme la critica sociale e il fantastico, l’ambizione di riscatto e l’iperbole comica, animando con la parola un teatro popolato di voci e personaggi. Il suo cinema poco ortodosso lo ha portato a realizzare i documentari “Senza paura” (2004) e “Parole sante”(2007). Nel 2010 dirige e interpreta il film  “La pecora nera”, presentato alla 67° Mostra del Cinema di Venezia. Nel 2015 sempre a Venezia, sezione “Le Giornate degli Autori” presenta “Viva la sposa” che ha avuto come  co-produttori  i fratelli Dardenne.

 “Viva la sposa” racconta di «un’Italia senza speranza, ma non disperata, di un poeta e una strampalata compagnia di giro». Un affresco corale dal sapore pasoliniano, ambientato nella periferia romana. Il film segue  Nicola che passa il tempo a bere e  tanti altri personaggi. Storie varie – piccoli truffatori, fughe sognate e mai realizzate, e quell’americana che gira per il nostro paese vestita da sposa. Tra gli interpreti oltre a Celestini, Alba Rohrwacher e Salvatore Striano.

Incontro Ascanio Celestini  a Villa Bombrini in una presentazione pubblica, venerdì 22 gennaio 2016 nell’ambito dell’iniziativa “Insieme daremo spettacolo”, realizzata  in collaborazione con il Teatro Archivolto, l’Associazione Amici dell’Archivolto e il Club Amici del Cinema.  E’ l’occasione per parlare del suo ultimo film “Viva la sposa”, della sua idea di cinema e del suo rapporto d’autore diviso tra  varie esperienze artistiche.

“Viva la sposa” è un film ambientato a Roma, nel  quartiere periferico Quadraro, e narra storie e personaggi di emarginazione. Se nella “Grande Bellezza” Sorrentino racconta le terrazze, le feste, dei quartieri alti tu ti occupi  di umanità ai margini.

Quando abbiamo fatto i sopralluoghi del film insieme a Stefano Bigazzi direttore della fotografia anche della “Grande Bellezza” ha subito detto come battuta: “cosa è La Grande Bruttezza”!  In realtà non penso che quei luoghi siano brutti anzi il tipo di edilizia del Quadraro, il suo pensiero urbanistico non è ghettizzante. Costruito dopo la seconda guerra mondiale non ha idea di alveare abitativo ma ci sono spazi adibiti a giardini. C’è un condominio progettato addirittura dall’architetto Adalberto Libera.

Una precisa scelta quindi.

Sì ho ambientato il film nello spazio di un chilometro quadrato perché mi sembrava che quell’urbanistica raccontasse bene la vita di queste persone. Sono povere, emarginate ma non miserabili anche se i personaggi del film sono tutti colpevoli, tutti hanno commesso qualcosa. Si portano sulle spalle delle colpe ma con leggerezza.

I personaggi sono ispirati a persone vere che tu conosci o hai incontrato?

C’è il personaggio del garagista ad esempio, quello che aiuta tutti senza chiedere nulla in cambio è ispirato proprio ad un garagista abruzzese che si chiamava Franco, lui a tutte le ore in una sorta di stanzone a metà della rampa che portava alla rimessa, cucinava. Era un luogo d’incontro dei musicisti, lì erano tutti ospiti. L’idea degli ultimi, la periferia sono parole, “etichette”. Le persone  stanno al centro del loro mondo. Certo che se  queste cose vengono ripetute loro per tutta la vita è normale che poi si sentano emarginati.

Il film precedente e anche i tuoi lavori documentaristici nascevano da trasposizione di tuoi testi tatrali, qui invece hai lavorato su un soggetto e una scenggiatura nata per il cinema

Sì, ho scritto e poi riscritto la sceneggiatura diverse volte. All’inizio la produzione internazionale sembrava più ricca. Via via poi le risorse economiche si sono ridotte ed è stato necessario ridimensionare, rivedere alcune parti della storia. In un primo tempo si doveva girare d’estate poi invece si è girato d’inverno, quando è facile che piova e si è costretti a cambiare spesso il piano di lavorazione.

Nicola, il personaggio che interpreti, passa il tempo bevendo e fingendo che stia smettendo di bere. Intorno a lui altri personaggi che incontra per un destino o per caso, come in una sorta di road movie. Il bar quindi diventa un luogo simbolo del film.

Il bar in cui abbiamo girato è  al ” Quadraro Vecchio”. Ambientare buona parte del film in uno stesso luogo mi ha dato la possibilità di fare da specchio a ciò che accade realmente in queste parti di città. Alla sera chiude il negozio di alimentari, il supermercato, il negozio di scarpe, quello dei vestiti e rimane aperto solo il bar che diventa il collo dell’imbuto. Tutti finiscono li dentro, un luogo dove il tempo non conta più. Qualcuno entra per un bicchiere di vino e si ferma ore. Sta lì senza un motivo;  Pasolini direbbe “come l’impiccato che è padrone solo del suo nome”. Mi interessava molto raccontare questa “condizione”.

Il personaggio della sposa  rappresenta un elemento favolistico che a tratti riesce a distrarre questa umanità e passa come un miraggio.

La sposa è alta quasi due metri, si chiama Mimmi Gunnarsson. Avevo bisogno di una presenza fisica che partecipasse al film in amicizia visto il budget limitato. Una segretaria che lavorava al progetto mi ha presentato questa donna esagerata, altissima, svedese. La sposa attraversa la storia di queste persone ma non entra in contatto con loro. Ha vari significati  che ogni spettatore può trovare.

Ecco proprio sui “significati”; se non sbaglio anche i fratelli Dardenne hanno detto di non avere capito il finale del film.

Si a proposito del finale  mi hanno scritto: “non abbiamo capito cosa significa ma ci piace molto”. Il mio primo film “La pecora nera” aveva una storia in cui i due  personaggi, il mio e quello di Giorgio Tirabassi sono in realtà la stessa persona. Ebbene questa cosa alcuni spettatori  non l’hanno capita e nemmeno alcuni “addetti ai lavori”, che si occupano di cinema. Stiamo vivendo una banalizzazione impressionante.

Un tempo invece il pubblico era più recettivo e capace di cogliere i “significati” dentro a film di autori anche difficili.

Sì anche i film della “commedia all’italiana”, certamente diversi dalla complessità del cinema d’autore, rispetto a quelli di oggi sembrano particolarmente difficili. Un tempo i film di Monicelli, Risi, Scola, erano capiti da tutti. Oggi lo spettatore è diventato un “cliente” e vuole  conoscere gli ingredienti di ciò che compra, avere un prodotto seduttivo e quando gli si chiede di interagire non è in grado di farlo. E’ come se uno abituato ad essere imboccato, all’improvviso venisse messo di fronte ad una pastasciutta da mangiare con la forchetta e non fosse più in grado di farlo. Il prodotto culturale e l’arte oggi vivono questa condizione.

Dalle tematiche del film però hai tratto spunto per il tuo nuovo spettacolo teatrale “Laika” dove continui a scandagliare un’umanità dolente. Quali stimoli ti da il cinema rispetto alla scrittura ed in particolare a quella teatrale?

Fare cinema è molto stimolante ma è anche faticosissimo e stressante. Nel caso di “Viva la sposa” poi un produzione indipendente, devi occuparti di tutto: sceneggiatura, regia, montaggio,  post produzione. L’aspetto interessante è quello di lavorare con altre persone. Il cinema si fa con gli attori, gli operatori, i tecnici. La diversità è proprio lì, a livello relazionale e lavorativo e non tanto dal punto di vista linguistico. Lo spettacolo teatrale parte da una serie di idee e  quando io arrivo alla “prima” ho tutto nella mia testa ma  ancora  in formazione. Nei film questo non avviene, occorre avere tutto preparato e studiato e dare indicazioni funzionali alle persone che collaborano.

Ti appassiona il mestiere del regista?

Si, anche se sostengo che il regista è quello che  meno conosce come si fa un film, nel senso che tutti gli specialisti che lavorano sul set sanno meglio di lui la specificità del  “mestiere”. Il regista ha una visione del film , è quello che lo vede prima di tutti o meglio lo immagina prima di tutti. Il linguaggio “cinema ” diventa tale solo alla fine ma durante la realizzazione non si riesce a percepire il senso del lavoro.  Il film è perciò la somma di tanti lavori e per il regista, la cosa importante è mettere in relazione tutte le voci, tutte le idee. Questo è il vero linguaggio.

Quindi il lavoro sul set è un continuo scambio.

Scambio soprattutto di professionalità. Ricordo che il primo giorno di lavorazione del  film “La pecora nera” sono arrivato sul set con idee molto precise. Avevo già lavorato ai documentari e mi sentivo  pronto e  preparato. Avevo predisposto la scena e i vari movimenti di macchina. Il direttore della fotografia Daniele Ciprì prima del ciack mi ha detto: “cosa metto il 50 o il 35 ?” Che tradotto vuol dire: “quale obiettivo monto sulla macchina da presa?” Io ovviamente mi sono fermato , perché non conoscevo questi aspetti tecnici. Così mi sono messo a studiare le  varie ottiche e via via ho capito come predisporle in base ai tipi di inquadratura.

Per concludere quindi hai ancora progetti di cinema in futuro?

A breve no anche se il cinema mi appassiona molto, come forse si è capito in questo incontro e credo che tornerò ad occuparmene prima o poi. Il teatro invece sarà presente subito; per me è una sorta di autentica “ossessione”.

Paolo Borio

 

 

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