Silvio Soldini e Giorgio Garini a Genova di Paolo Borio

soldini e garini a genovadi Paolo Borio.
Doppio appuntamento  genovese per Silvio Soldini e Giorgio Garini  mercoledì 3 giugno 2015: prima l’incontro pubblico a Villa Bombrini di Ge-Cornigliano , promosso dalla Fondazione Teatro Archivolto e Società per Cornigliano; poi la proiezione serale del loro ultimo film “Un albero Indiano” al Club Amici del cinema, nell’ambito della rassegna Ovest.doc.

E’ stata  l’occasione per conversare con i due registi, ripercorrendo una carriera cinematografica  ormai trentennale. Il cinema di Soldini ha sempre avuto uno sguardo etico-sociale, la capacità di indagare con rigore ma anche con tocchi di  leggerezza temi esistenziali, sia  in commedie rocambolesche e romantiche,  sia in opere dai toni drammatici. Uno sguardo indipendente che si è nel tempo ritagliato un’autonomia poetica ed espressiva particolarissima nel cinema Italiano.

Quando hai scelto di dedicarti al cinema e farlo diventare la tua professione?

(Silvio Soldini)  A ventun anni ho deciso di lasciare gli studi universitari di Scienze Politiche e cercare una scuola dove potessi studiare cinema. Mio padre mi ha consigliato di scegliere, se proprio ero convinto di questo mio interesse, una scuola buona. Così dopo qualche ricerca sono “volato” a New York e ho frequentato per due anni la New York University.

Poi sei tornato in Italia

Si e ho cominciato a lavorare come traduttore  di telefilm americani  e aiuto regista per la pubblicità. Ero particolarmente timido e non avrei mai osato fare la trafila classica del regista: presentare progetti, trovare produttori e finanziamenti, aspettare risposte e andare a vivere a Roma.

Hai cominciato così a girare mediometraggi con lo spirito di un filmmaker. Prima “Paesaggio con figure” (1983) e poi “Giulia in ottobre”(1985)  che hanno avuto visibilità in  vari festival e ti hanno fatto notare come “nuovo autore”.

Sono stati autoprodotti, con budget bassissimi, realizzati con alcuni volenterosi amici. “Paesaggio con figure” è stato girato di notte in una Milano freddissima.

In questo periodo vi siete incontrati.

(Giorgio Garini ) Si e ho lavorato con Silvio a quei progetti. Sono uno di quelli che ha resistito a quelle fatiche ed è nata una collaborazione che dura tutt’ora. Io mi sono occupato  prevalentemente di documentari anche in modo autonomo, con lavori antropologici e sociologici, in giro per il mondo. Con Silvio ho lavorato come aiuto regista, co-regista ma anche come operatore e di alcuni progetti ho curato il montaggio. Film di finzione e documentari si sono intrecciati da sempre nella nostra produzione e  talvolta le tematiche  dell’uno hanno influenzato e dato avvio all’altro.

Come nasce un documentario?

( Giorgio Garini) In genere il progetto ci viene proposto oppure ci interessano alcune tematiche .Si scrive una traccia e poi si gira. Il documentario ovviamente nelle riprese ha un percorso più casuale e si deve adattare agli imprevisti o ai cambi che avvengono via via nella realizzazione. E’ come una partitura jazz; c’è una salutare parte di improvvisazione. Il montaggio poi è una sostanziale  “riscrittura” che da forma al tutto.

 I film di finzione invece partono da una solida sceneggiatura  curata in modo particolare.

(Silvio Soldini) La scrittura di un film è più complessa e richiede diverse fasi, io poi lavoro molto con gli attori e con loro provo le varie scene. Riscrivo alcune parti seguendo quello che loro portano di personale nel personaggio. Non tutti gli attori però sono disponibili a lavorare in questo modo. Alcuni vogliono solo girare le scene perché si usa così nelle produzioni cinematografiche. Non uso poi fare la lettura collettiva del copione. Preferisco nelle prove previste, nei giorni precedenti le riprese, vedere come si muovono, come interpretano e come via via danno spessore ai personaggi e alla storia. E ovviamente come interagiscono tra loro nei vari momenti.

In questo modo hai girato  il tuo primo film di finzione  “L’aria serena dell’ovest”(1990), poi di seguito “Un’anima divisa in due”(1993) e “Le acrobate”(1997). La cosiddetta trilogia della “A”.

Si e ho conosciuto attori con cui poi ho continuato a lavorare: Fabrizio Bentivoglio, Licia Maglietta, Felice Andreasi, Giuseppe Battiston, Marina Massironi. Poi Alba Rohrwacher ed altri.

E veniamo a “Pane e Tulipani”(2000), un film magico in tutti i sensi, un grande successo del cinema italiano premiato, nelle varie categorie, con nove David di Donatello

Anche qui è stato importante il clima creatosi. La produzione aveva affittato un residence dove abbiamo abitato durante tutte le riprese. Si viveva a stretto contatto: tecnici, attori, comparse. Alla sera si cucinava insieme, ci scambiavamo  impressioni e idee. Inoltre gli interni sono stati girati in autentiche case veneziane; oggi si preferisce costruire i set negli studi di produzione.

Con il  film successivo  hai però avuto il coraggio di cambiare registro, passando al drammatico “Brucio nel vento”(2002)  storia di ossessione e passione tra immigrati in Svizzera e tratto dal romanzo “Ieri”, della scrittrice Ágota Kristóf.

Dopo un film di successo è più facile avere credito.

La casa di produzione Monogatari che hai fondato ha avuto ed ha un gruppo storico di collaboratori:  Luca Bigazzi direttore  della fotografia (anche dei film di Sorrentino) la sceneggiatrice Doriana Leondeff, il musicista Giovanni Venosta, il produttore Daniele Maggioni, il fonico Roberto Mazzarelli e appunto Giorgio Garini.

Collaborare con persone che si stimano è importante. Con alcune di loro  poi sono diventato amico.

Nei tuoi film la musica ha una parte minimale

In genere nella sceneggiatura non lascio “spazi liberi” da riempire con la musica. In alcuni momenti però si sente il bisogno di una  sottolineatura sonora. Con l’autore delle musiche concordo i momenti e poi mi affido alla sua creatività. Esiste un cinema che a me piace, in cui la musica è assente; quello dei fratelli Dardenne  ad esempio.

(Giorgio Garini) Silvio non è un regista che faccia la fortuna dei musicisti. In “Un albero indiano” l’unica musica presente è quella autentica registrata in diretta da un gruppo di musicisti trovati sul posto. Lì era perfettamente funzionale. E’ molto più affascinato dai suoni o dai rumori naturali.

Quali film avete visto in questi ultimi tempi?

(Giorgio Garini) Ci confrontiamo spesso sui film visti come spettatori. A me recentemente è piaciuto molto “Birdman” e un altro film molto interessante è “C’era una volta in Anatolia” del regista turco Nuri Bilge Ceylan.

Parliamo dei due film girati a Genova “Agata e la tempesta”(2004) e “Giorni e Nuvole”(2007).

(Silvio Soldini) Conoscevo Genova perché è la città in cui è nata mia nonna. Poi ho deciso di utilizzarla per “Agata e la Tempesta”. Per “Giorni e Nuvole” avevo bisogno del mare, di aperture a paesaggi  che Genova offre. Volevo un contrasto  rispetto alla storia e ai personaggi che invece si trovano sempre più chiusi in un sorta di tunnel psicologico. Conosco bene la città che ho fotografato molto nella preparazione dei film.

Avete realizzato anche un documentario sulla Liguria “Un piede in terra l’altro in mare” (2007)

Per La Liguria Film  Commission  abbiamo realizzato questo progetto che ha cercato di raccontare il territorio  ligure con le sue differenze, i cambiamenti subiti, attraverso le testimonianze e i racconti di varie esistenze. Un’occasione, almeno per noi,  per conoscere vari  luoghi della regione ed i liguri.

I tuoi  due film successivi “Cosa voglio di più”(2010) e “Il generale e la cicogna”(2012) sono stati girati nella tua Milano. Progetti futuri?

Stiamo preparando ancora un documentario su Milano in questo periodo di Expo anche se non sarà un lavoro specifico sulla manifestazione.

Per un prossimo film c’è speranza di vederti tornare a Genova anche per onorare la regola del “non c’è due senza tre”?

Vedremo. Se ciò sarà possibile, lo farò molto volentieri.

Incontro ancora Silvio Soldini e Giorgio Garini al Club Amici del Cinema al termine  della proiezione di “Un albero Indiano”. Dopo avere diretto insieme “ Per altri occhi “(Nastro d’argento 2014 come miglior documentario), in cui portavano sullo schermo vite di persone non vedenti fuori dagli schemi, hanno proseguito su questa strada con un reportage asciutto e intenso, che ha per protagonista lo scultore non vedente Felice Tagliaferri. Lo seguono infatti nel suo viaggio in India per tenere un corso di lavorazione della creta a bambini con e senza disabilità, presso la Bethany School di Shillong. I due registi hanno animato il dibattito finale commentando e rispondendo alle domande del pubblico con l’entusiasmo e la passione propria dei filmmakers che accompagnano con  affetto la loro opera. Li aspettiamo alla prossima occasione, per un’altra giornata di cinema a tutto campo o magari per parlare in maniera più concreta  del progetto del  film da girare a Genova.

Paolo Borio

 

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