Un tocco di follia


di Valentina Merlo
Mauro  Pirovano parla di cinema, teatro, tv.  E confessa la sua passione per la commedia demenziale.

DIPLOMATOSI NEL 1980 PRESSO LA SCUOLA DEL TEATRO STABILE DI GENOVA, MAURO PIROVANO nel 1986 è al Teatro dell’Archivolto. Insieme a Carla Signoris, Maurizio Crozza, Marcello Cesena ed Ugo Dighero forma il quintetto dei Broncoviz, che darà il via alla sua carriera con il programma televisivo Avanzi, seguito dal film per il grande schermo Peggio di così si muore. Partecipa al programma Mai dire… e recita in diverse fiction tv, come Un medico in famiglia, Don Matteo, Baciati dall’amore e A un passo dal cielo. E’ molto amato dal pubblico genovese per le sue straordinarie interpretazioni in dialetto, che gli permettono di vincere il premio Govi nel 2008. Insegna teatro e dizione a Genova.

Dal palcoscenico del Teatro Stabile di Genova allo schermo: in che modo l’ambiente e la formazione genovese hanno contribuito alla tua realizzazione come attore?

La creazione dei Broncoviz in realtà è stata una cosa molto artigianale, partendo dagli sketch delle finte pubblicità siamo arrivati ad ‘Avanzi’: Marcello Cesena aveva fatto un provino e dopo essere stato preso ci aveva tirato dentro tutti. Da lì il salto al grande schermo col nostro film, Peggio di così si muore.  È avvenuto tutto in modo molto casuale, non è che ci fossimo imposti di seguire necessariamente la strada della televisione o quella del teatro. Il lavoro che facevamo ci metteva nella condizione di confrontarci con molteplici realtà, non c’era nulla di premeditato. Avevamo delle voglie: il film è nato proprio così, il gruppo aveva voglia di cimentarsi nel cinema. Per questo la mia esperienza allo Stabile è stata fondamentale. Anche la collaborazione con l’Archivolto è stata molto formativa. Lì, con i Broncoviz, ci siamo potuti scatenare, grazie a Giorgio Gallione che non ci limitava. E’ venuto tutto in modo molto naturale, forse perché noi eravamo i primi a divertirci.

Qual è il tuo rapporto con la città?

Amo molto Genova, ma so che è una città dalla quale devi andartene, perché si sta stretti, perché ti spinge via. E’ una città un po’ matrigna. Nei confronti dei propri figli non ha protezione, come invece succede a Roma o Milano. Ti butta subito in mare e ti dice che devi imparare a nuotare. Dal punto di vista artistico è una grande scuola, basta pensare ai grandi cantautori, a tutta la serie di comici genovesi molto apprezzati, la cui comicità raffinata e non becera, tipicamente ligure, è incentrata più sulla situazione che sulla battuta.

È una città matrigna, ma tu hai scelto di rimanere ad insegnare a Genova.

Per me è importante lavorare con i ragazzi.  Loro mi danno moltissimo e mi mantengono giovane, ma voglio continuare a fare il mio lavoro anche fuori. Per fare televisione e cinema bisogna necessariamente viaggiare. Per recitare a teatro, invece, prediligo Genova, perché mi piace farlo con le persone con cui ho condiviso un percorso, perché c’è un linguaggio comune.

Parliamo di cinema: quale genere ti ispira di più?

Mi piacciono i film di vari generi, ma, ovviamente, tendenti al divertente. Amo i film un po’ demenziali in stile Hollywood Party con Peter Sellers. Oppure il cinema italiano degli anni ’50, come quello di De Sica, in cui c’erano questi attori provenienti dal varietà che hanno inventato tutto, film come I soliti ignoti. Mi piace quella comicità fatta dai grandi attori, dove lo studio della situazione è più profondo rispetto a quello per la battuta. C’è un film scellerato, Ridere per ridere di John Landis, nel quale appare la fantomatica Bronkowitz Film Production dalla quale abbiamo preso il nome, che mi piace moltissimo. Mi divertono molto anche i film di Totò. Insomma, se vado al cinema mi piace divertirmi.

Uno dei titoli più originali della tua filmografia è Princesa

E’ un bel film ed è stata un’esperienza di vita. Eravamo tre attori, e tutti gli altri trans veri. Il regista Henrique Goldman era l’aiuto di Ken Loach e lavorava in modo simile a lui, facendoci stare con loro al ristorante, in palestra… La mia parte è quella di un genovese a Milano, un po’ sradicato, che frequenta per amicizia queste trans, e loro gli fanno provare qualche esperienza borderline. Ma tutto molto semplice, senza perversione. E’ un film sui pregiudizi nei loro confronti, anche perché quasi tutte si prostituiscono per pagarsi l’operazione. Milano è la piazza trans più frequentata, non ci volevano dare nessun permesso: così giravamo di notte, senza chiudere nessuna strada. Abbiamo fatto dei cameracar con i tram che ci venivano addosso, e se fermavi la macchina ti suonavano.

Poi c’è stato direttamente Loach, in Ticket.

La produttrice di Princesa, Rebecca O’Brian, era la stessa di Ken Loach (e di mr. Bean…), così Loach mi ha chiamato per un provino. Un sogno. Una persona di grande umanità, ti mette a tuo agio, ti chiama subito per nome. Non dà l’azione, lascia scivolare l’attore a poco a poco nella scena, e dà solo il ciak in fondo. Non dava indicazioni precise, avevi le battute ma i dettagli erano improvvisati al momento. Io facevo il controllore che cercava di trattenere l’hooligan, ma gli hooligans li ho incontrati solo sul treno, e se Loach vedeva che ci mettevamo d’accordo su qualcosa interveniva subito per impedirlo. Mi faceva partire da cinque carrozze prima, attraversare tutto il treno. Quello che ne viene fuori è di un realismo tutto particolare. Tra l’altro, nella scena in cui mi tolgono il cappello, gli hooligans mi hanno rotto gli occhiali che erano miei. Loach ha chiamato subito la produzione per farmeli rimborsare. Il rimborso l’aspetto ancora, però gli occhiali rotti li tengo come una reliquia.

Quale grande film ti sarebbe piaciuto interpretare?

I soliti ignoti di Monicelli, oppure avrei voluto recitare la parte del fotografo in Miseria e nobiltà di Mattoli. Mi piacciono quei personaggi che magari non sono protagonisti, ma che da comprimari sono in grado di reggere tutto.

Secondo te in che condizione si trova, attualmente, il cinema italiano?

Questa è una domanda difficilissima. Non saprei, vedo Checco Zalone che sembra rappresentare il cinema italiano e fa degli incassi da paura, ma non credo sia questo il futuro del cinema. Io credo che sia anche cambiato il pubblico e che la televisione abbia rovinato molto la sua situazione. Sul set del mio ultimo film, Montaldo mi raccontava di un cinema che non esiste più, fatto di produttori che si sarebbero venduti la macchina pur di fare il film, in cui tutti erano coinvolti nella sua realizzazione. In questo momento sono un po’ pessimista, ma è anche un momento economicamente assurdo.

Pensi che Genova sia una città adatta per fare film?

In molti film girati qui alla fine esce Genova e si riconosce. La nostra è una città molto cinematografica, da sempre. Persiste il fatto che i registi debbano venire sempre da fuori, i genovesi  sono scettici, è sempre un po’ il discorso che facevo prima sulla necessità di andare via. È una realtà che potrebbe essere sfruttata ed apprezzata di più, così come il Cineporto.

 

 

Postato in Attori, Numero 100.

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