Quando la scrittura è donna


di Francesca Felletti.
Dopo il successo di “Habemus Papam”, la sceneggiatrice genovese Federica Pontremoli,
lavora al nuovo film di Giorgia Farina.

SE È STATO STUPEFACENTE IMMAGINARE la caduta di Berlusconi con il suo conseguente invito di ribellione alla folla e l’incendio del Palazzo di Giustizia tratteggiato ne Il caimano, lo è stato ancora di più ipotizzare, in tempi di crisi come i nostri, che persino il Papa potesse declinare l’elezione, non sentendosi all’altezza del proprio ruolo e sprofondando nella depressione, ovvero: Habemus Papam.

Due film profetici che a distanza di anni hanno trovato inattesi riscontri nella realtà e che portano la firma non soltanto del regista Nanni Moretti, ma anche degli sceneggiatori Francesco Piccolo e Federica Pontremoli.

«Ma a me sembra che persino Giorni e Nuvole di Silvio Soldini, che è stato uno dei primi film italiani (e svizzero, ndr) sulla perdita del lavoro e dello status economico e sociale di una famiglia, oggi non avrebbe più lo stesso significato e interesse – spiega la Pontremoli che partecipò anche a questo script – perché siamo arrivati ad un periodo storico in cui il pubblico ha bisogno di uno spiraglio di speranza, di vedere che è ancora possibile farcela. Per questo è il momento delle commedie, e film sconsolati come il bel Gli equilibristi, sui problemi di un separato, hanno poco successo al botteghino».

Per la genovese Federica Pontremoli, che è oggi una delle sceneggiatrici italiane più famose – cercata da registi come Ferzan Ozpetek, Francesca Comencini, Giuseppe Piccioni – tutto iniziò nei primi anni ’90 quando, mentre si stava laureando, si iscrisse al corso di sceneggiatura di Giovanni Robbiano. Seguono gli studi al Centro Sperimentale di Roma, il tirocinio sul set di Branchie di Francesco Ranieri Martinotti, i primi cortometraggi e videoclip, e la regia di Quore. Nel 2003 è tra i vincitori del Premio Sacher, e da qui inizia la collaborazione con il regista di Caro Diario.

«Ma fra tutti i film che ho sceneggiato, quello che ricordo con maggiore affetto è Lo spazio bianco di Francesca Comencini perché la sua scrittura è stata molto personale. – continua Federica – Quando ho letto il romanzo di Valeria Parrella, da cui è tratto, mi son venuti i brividi, oltre che per la storia agghiacciante di una donna che aspetta tre mesi davanti a un’incubatrice di poter abbracciare la propria figlia nata prematura, perché era assolutamente anti-cinematografica: non succedeva nulla da mettere in scena. Per questo è stato un lavoro molto faticoso ma di grande soddisfazione».

Adesso su cosa stai lavorando?

Sto terminando una commedia per Rai Cinema sulla paura di volare, nel senso di prendere l’aereo, che neanche a dirlo diventa anche una metafora della paura di far volare la propria vita, il proprio pensiero.

L’ultima volta che ti ho intervistata (Film Doc n. 87 del 2010) mi avevi detto di non aver grande interesse a lavorare per la televisione italiana. Cosa ti ha fatto cambiare idea?

La nostra televisione si trova in un momento molto particolare: da una parte c’è la forte crisi economica, dall’altra una difficoltà a capire quali siano gli spettatori – soprattutto per quello che riguarda la tv generalista – e la direzione da prendere. Trovo quindi che sia una situazione interessante, più aperta alle nuove idee. Senza contare che nel resto del mondo, America in testa, la tv sta producendo cose bellissime e dei generi più disparati: serial come “Homeland”, storia di spie fra Cia e al-Qaida; “House of Cards”, protagonista Kevin Spacey, nel ruolo di un politico senza scrupoli che mira ai vertici politici di Washington; “Breaking Bad” su un professore di chimica malato di cancro che si mette a spacciare droga per assicurare un futuro economico alla sua famiglia. Contrariamente a quello che succedeva in passato, domina la libertà assoluta di esplorare i territori più nuovi per la tv, compresi horror o fantasy. E per assurdo: siccome a Hollywood si stanno finanziando quasi solo grandi produzioni, magari in 3D, autori come i fratelli Coen o Jane Campion sono costretti a proporre i loro progetti alle tv via cavo, che con le serie stanno avendo ottimi risultati. Questo rivoluziona anche il modo di raccontare le storie e i personaggi: avendo un ventaglio di 12 ore a disposizione, invece che i canonici 90’, si deve sviluppare la trama non tanto in estensione ma in profondità. Se questo deve ancora accadere in Italia, ci sono già produttori importanti che si stanno occupando anche di serie televisive, come quella su Gomorra di Roberto Saviano, che è già stata venduta in tutto il mondo.

Il prossimo lavoro?

Inizierò a breve una sceneggiatura con Giorgia Farina, la regista del fortunato Amiche da morire per un film prodotto dai fratelli Leone, i figli del grande Sergio. Sono felice perché sarà un’altra storia al femminile e perché Giorgia mi piace molto: è giovane, preparata, internazionale, ed è il tipo di persona che capisce, e accoglie, al volo le idee che proponi senza bisogno di tante spiegazioni. Mi sento un po’ un’esploratrice perché ancora oggi il cinema, a livello mondiale, fatica a creare dei ritratti di donne che vadano al di là degli stereotipi. Ho appena visto Blue Jasmine di Woody Allen con Cate Blanchett che in questo senso è strepitoso.

Da qualche anno ti sei trasferita a Roma, cosa ti è rimasto di Genova in campo lavorativo?

Sono molto fiera di portarmi dietro il senso dell’umorismo genovese! Non a tutti è facile capire la nostra ironia understatement, e a maggior ragione essa non ha molto successo nella comicità mainstream dove bisogna fare ridere attraverso meccanismi aperti e non chiusi come i nostri. Ma questo umorismo che nasce dal dolore mi ha permesso di sintonizzarmi subito con autori come Nanni Moretti o Francesca Comencini che sono, paradossalmente perché non girano commedie, quelli con cui rido di più!

Progetti per il futuro?

Vorrei scrivere un film di animazione per adulti e sono già in contatto con i produttori de L’arte della felicità di Alessandro Rak che era alla Settimana della Critica dell’ultima Mostra di Venezia.

Ti piacerebbe spostarti a Hollywood?

Credo di sì perché l’America per certi versi è il paradiso dello sceneggiatore: lì quello che interessa sono le idee. Sono disposti a trovarti un traduttore, a fare scrivere i dialoghi da un dialoghista, ma quello che vogliono è un’idea originale e che funzioni che sia la pietra fondante di un film.

Che cinema ti piace di più guardare? E quale scrivere?

Adoro il cinema che riesce a costruire un mondo in cui perdersi, sia da spettatrice, sia da sceneggiatrice. Ho amato film come Bagdad Café di Percy Adlon, interamente ambientato nel deserto, o Re della terra selvaggia di Benh Zeitlin, su una bizzarra comunità che vivrebbe nelle paludi del sud della Louisiana che ciclicamente si allagano. Sono storie che hanno una logica tutta loro, per entrare nella quale, bisogna “dimenticare” quello che si sa. A quel punto, oltre che nel racconto, ti sembra di entrare nella testa dello scrittore. È un po’ il genere che mette in scena Woody Allen in molti dei suoi film, che richiede una grande libertà di immaginazione da parte di chi guarda: come nell’ultimo Midnight in Paris in cui il suo personaggio si perde negli anni ’20. Ma basterebbe citare qualsiasi film di Wes Anderson o dei fratelli Coen.

Ma tu cosa hai provato quando hai saputo dell’abdicazione di Papa Ratzinger?

Su questo episodio ho un aneddoto divertente. Ero all’estero, stavo prendendo l’aereo e ho quindi spento il cellulare. Atterrata a Roma l’ho riacceso e mi sono arrivati tutti insieme una cinquantina di messaggi. Sulle prime mi sono preoccupata per la mia famiglia, ma dopo poco ho scoperto che erano complimenti di amici e colleghi, o giornalisti desiderosi di conoscere la mia reazione alla scoperta che il vero Papa aveva fatto quello che noi avevamo immaginato per il protagonista di Habemus Papam: non se l’è sentita. E finalmente il nostro film è stato letto da tutti come lo avevamo ideato originariamente: semplicemente la vicenda di un uomo che declina davanti ad una responsabilità troppo grande per lui, mentre appena uscito in sala aveva ricevuto alcune critiche negli States come occasione mancata per parlare dei problemi della Chiesa.

C’è una domanda che nessun giornalista ti ha mai fatto ma di cui vorresti invece parlare?

Mi piacerebbe raccontare tutti i film che ho scritto e che non sono mai stati realizzati. Lo sceneggiatore in un certo senso è più fortunato del regista, perché può lavorare a un film anche se poi non verrà realizzato. Nell’ultimo anno, ad esempio, io ho lavorato tantissimo senza che sia uscito niente di mio! Fra gli altri, ho partecipato al progetto di Anna Negri per la trasposizione cinematografica del suo romanzo Con un piede impigliato nella storia, sulla sua adolescenza segnata dall’arresto del padre accusato e imputato in otto processi per il rapimento di Aldo Moro e solo in ultimo prosciolto. Ho affiancato Piccolo per un’altra trasposizione, quella del suo La separazione del maschio. E ho scritto un trattamento per un musical sexy: la storia di una regista che vorrebbe girare un musical e si trova a girare scene porno.

Postato in Numero 100, Sceneggiatori.

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