Frammenti di un discorso Anarchico


Incontro con Pippo Delbono, autore teatrale sempre più presente anche al cinema.

di Massimo Lechi.

Pippo Delbono è senza dubbio uno degli spiriti più rivoluzionari del cinema italiano contemporaneo. Un artista-viaggiatore capace di provocazioni sconcertanti e squarci di poesia, di luci candide e ombre minacciose, il cui anarchismo visionario ha origini ben lontane dai set cinematografici.
Allievo di Pina Bausch, il regista e attore originario di Varazze è infatti il creatore di un teatro politico di carne e sangue osannato in tutta Europa – specie in Francia – che gli ha permesso di avvicinarsi alla settima arte nel 2003 con Guerra (David di Donatello per il miglior documentario), realizzato tra le macerie della Palestina durante la tournée dell’omonimo spettacolo.
Da allora, Delbono ha inanellato una serie di film sospesi tra la ricerca documentaristica, la riflessione politica e la confessione privata. Difficile definire la natura di una simile sperimentazione visiva, al contempo cruda e impalpabile, violenta e sfuggente, in cui il canto e il lamento procedono sul filo della memoria (l’autobiografico Grido, del 2006), coagulandosi in soggettive mobilissime e sgranate (La paura, del 2009, è girato con un cellulare) e in una parola dichiaratamente poetica che punta all’indicibile (Amore Carne, datato 2011, è in parte dedicato alla malattia che lo ha colpito). Una cinematografia per
“felici pochi” insomma, estranea ai principali circuiti distributivi, che tuttavia gli è valsa la venerazione vagamente timorosa riservata agli autori di culto, coerenti con sé stessi e con un linguaggio in costante e necessaria evoluzione.
Negli ultimi tempi, inoltre, si è registrato l’intensificarsi dell’attività di attore, che lo ha portato a recitare per nomi di successo fuori e dentro l’Italia: all’esordio in Io sono l’amore di Luca Guadagnino sono poi seguite le collaborazioni con Peter Greenaway (Goltzius and the Pelican Company), Bernardo Bertolucci (Io e te), Marco Risi (Cha cha cha) e Yolande Moreau (Henri, presentato quest’anno a Cannes). Mentre la sua ultima fatica registica, Sangue, in concorso a Locarno 2013, ha suscitato enormi polemiche a causa del  coinvolgimento dell’ex brigatista rosso Giovanni Senzani all’interno di una narrazione a frammenti incentrata sul dramma della perdita, il peso del lutto e la morte dell’utopia,
rivoluzionaria e non. Tra accuse d’oltraggio ideologico e blasfemia esibita, il film ha strappato il Premio Don Quijote, sorta di riconoscimento all’incoscienza autoriale, cementando ulteriormente i due fronti che da sempre accolgono con reazioni opposte il cinema – e, in generale, l’arte – di questo geniale provocatore affascinato dal fuoco che si annida nel buio dell’esistenza.
Si riconosce nella definizione di “regista clandestino”?
Sì, mi piace la parola “clandestino”. Anche se forse sarebbe più corretto dire “regista fuori dai binari”. O “anarchico”, ancora meglio.
Un anarchico che dal teatro di ricerca è passato a un cinema ancor più sperimentale. Di solito i teatranti, specie quando si muovono all’interno di una prospettiva diaristica come nel suo caso, preferiscono rivolgersi alla scrittura.
Anche perché normalmente il regista di teatro è innamorato della pièce, delle parole. Il mio teatro invece si rifà ad altre forme di linguaggio, all’immagine e alla musica. Quindi penso al cinema soprattutto come a una ricerca sullo sguardo, un guardare le cose da altri punti di vista. Il problema dell’artista è sempre quello di trovare la verità:  naturalmente non la si trova mai, però è importante non dimenticare il percorso di ricerca. Cambiando punto di vista si riesce certe volte a cogliere degli squarci di questa verità impossibile.
Ma è sempre una questione di punti di vista, anche a teatro. Forse, a cambiare, è soprattutto il rapporto tra ciò che si propone e come lo spettatore è chiamato a fruirlo.
Cambiando punto di vista a teatro vedi verità diverse, vedi dei particolari di cui altrimenti non ti accorgeresti. Io ho realizzato il film di un mio spettacolo, Questo buio feroce, e ricordo molto bene di quando la signora che si era occupata dei sottotitoli per i festival esteri venne a teatro a vedere la rappresentazione dal vivo per la prima volta. Mi disse che il film le era piaciuto di più perché lì io l’avevo guidata nello sguardo, le avevo fatto “vedere” cosa guardare, mentre a teatro si era sentita completamente persa. Questo è un punto importante: al cinema tu segui uno sguardo, e persino un tuo stesso spettacolo,
ripreso con un pensiero cinematografico, può rivelarti dei particolari che in una sala teatrale non vedi. Il teatro è un rito collettivo, mentre il cinema ti permette forse di entrare di più nell’essere umano.
Non sono differenze da poco. A teatro lei guida la rappresentazione dall’interno  costringendo lo spettatore a una visione frontale. Al cinema, invece, è spesso fuori dall’immagine e il pubblico segue il film attraverso i suoi occhi, in soggettiva.
Infatti, quando faccio i miei film, ho sempre meno voglia di esserci. In Amore Carne non ci
sono quasi più … Mi si vede un po’, ma in realtà sono sempre e solo i miei occhi che guardano. I piccoli mezzi che uso per riprendere hanno la straordinaria capacità di sostituirsi proprio a loro. Nel quotidiano della vita passiamo, osserviamo con poca attenzione e siamo molto spesso morti nello sguardo, mentre vedo che quando giro con la camera, con la macchina fotografica o con il cellulare l’occhio si apre, diventa attento
a cose che altrimenti passerebbero inosservate.
Sono mezzi che le permettono di essere più libero e di filmare in maniera quasi impressionistica. Il suo è un cinema di riflessioni e suggestioni sparse.
Sì, perché nel mio cinema – come nel mio teatro, e forse anche di più – il racconto diventa viaggio. Il cinema non è  l’attraversamento di un deserto: è un viaggio sulle montagne russe, con dei passaggi, degli avvenimenti inaspettati, dei colpi di scena, dei ritorni, dei fili che si incrociano.
Mi piace molto il restare aperto, il tentare di trovare le casualità che avvengono tra le cose,
e che noi spesso non vediamo perché siamo offuscati, perché viviamo in un mondo in cui tutto è vero e tutto è falso. Tu prendi a caso dal reale, e poi scopri che nella casualità in fondo c’è una narrazione.
Ma cercare la verità e il mistero nella casualità implica comunque un certo grado di manipolazione. Il cinema è anche questo, non si può scappare.
Mah … Io non sono sempre convintissimo di quello che faccio: razionalmente spesso non mi
rendo bene conto. Dipende dai materiali che ti scegli. Non vado più in giro a riprendere con il mio cellulare o con la camera, per non disperdermi.
All’inizio della mia carriera giravo con delle Super VHS e filmavo di tutto, poi mi trovavo
con ore e ore di immagini che non ho neanche più rivisto – un giorno, magari. Adesso devo portarmi dietro la necessità, anche solo inconscia, di raccontare qualcosa. Per Sangue sentivo di dover parlare della morte di mia madre, dell’incontro con Senzani, delle Br, della Cavalleria rusticana che ho fatto a Napoli. Volevo mettere insieme queste cose – la morte, la rivoluzione eccetera – e allora sono andato con la mia camera a cercare questi fili. Se mi fossi seduto lì a scrivere un film su mia mamma morta o sui terroristi rossi degli anni Settanta, non ce l’avrei fatta.
E come vive la difficoltà di far arrivare a un pubblico più vasto questa ricerca estetica, nonché tutti i problemi produttivi e distributivi che il cinema comporta?
In Italia se fai un film che non ha senso ma è costato quattro milioni di euro, vai in tutte le sale. Mentre se hai fatto un film con cinquanta euro, di solo valore artistico, diciamo, è molto difficile che esca, perché non ha messo in movimento soldi e interessi. Non a caso lavoro molto meglio con la Svizzera e la Francia – sto collaborando col montatore-operatore di Godard, un signore che dopo aver cambiato la storia del cinema continua a ricercare. Ultimamente poi mi sono messo a recitare, a fare l’attore per altri. Mi piace stare sui set, studiarli come possibilità di fare un cinema “normale”. Come durante il film di Yolande
Moreau, una produzione francese importante: dovevo girare una scena in cui pelavo delle
patate e c’era tutta una piazza bloccata, con la polizia, decine di persone e un piccione addomesticato che si doveva avvicinare a me… Ci ho trovato passione, necessità, armonia. E’ stata una bella esperienza che mi ha fatto immaginare che potrei anche fare un film con una troupe, un giorno – cosa che non escludo. Ora probabilmente mi aiuta il fatto di avere una storia molto consolidata a teatro.
Questo mi permette di agire da una posizione di calma maggiore rispetto, per esempio, a chi fa solo cinema, e di essere più libero. Più libero e più rompiballe.
Ma non tanto per me, perché alla fine quello che dà un senso sociale e politico è provare a fare una rivoluzione che contamini anche l’ambiente intorno. Mi piace pensare che puoi  cambiare delle cose intorno a te.
Questo significa che i suoi film sono atti politici?
Sì, totalmente. Spirituali, anche… E poetici. Non si possono dividere poesia e politica l’una dall’altra.
Una poesia ottenuta dalla giustapposizione di elementi eterogenei. Attraverso immagini e parole spesso in contrasto lei infatti cerca di aprire il cinema a temi di enorme portata come la Vita, l’Amore o la Morte senza mediazioni drammaturgiche.
Sì, è giusto. Ma naturalmente quello che tu vedi da spettatore non è qualcosa a cui io – creatore – voglio dare un nome e un cognome. Non mi siedo a tavolino pensando che il mio film sarà sull’Amore in particolare, o su altro … Anche se poi però alla fine vedo che è così. L’arte è un questionarsi sul senso del vivere: perché nasciamo? perché moriamo? perché soffriamo? Sono tutte domande che ci danno il senso di essere artisti. L’arte si fa per andare a sondare le zone che non si conoscono e non si capiscono, sennò si fanno dei trattati, della saggistica. Ed è per questo che mi piace trovare i fili nella casualità, perché si creano delle sceneggiature nuove, che non sono guidate.
Perciò il cinema è una ricerca che parte da frammenti e non un dire qualcosa di definitivo partendo da una certezza assoluta?
Parti da dei frammenti e provi a vedere come questi si intersecano. Cose che  apparentemente non hanno alcuna relazione tra loro possono rivelare un legame, un senso che noi perdiamo di vista ma che c’è. Quindi cambia anche il colore: la morte è drammatica, però può essere anche divertente. Penso a quei film americani in cui muoiono tutti: mille morti in mille modi, ma alla fine non muore davvero nessuno. Tu esci e non c’è stato nemmeno un morto. Nemmeno un morto vero. Terribile, no? Eppure muoiono tutti… Io invece voglio andarci, sul morire.
E il fatto che lei lo faccia attraverso sé stesso?
E’ il modo più sincero. Parlando di te parli del mondo: il tuo privato diventa politico. Riflettendo sulla tua morte, o su quella delle persone che ti stanno vicine, puoi riflettere sulla Morte. Senza però andare sull’emotività: il cinema non deve farti commuovere, ma deve avvicinarti alla verità dell’esistere – cosa molto diversa.
Il contrasto tra emotività ed emozione nuda e cruda.
L’emotività è in un colore: piango perché muoio, piango perché sono triste, rido perché sono contento. L’emozione è invece un qualcosa che ha in sé delle contraddizioni, è una luce che appare in mezzo al buio, è una leggerezza che si rivela nella pesantezza.
Ma affrontando tutto questo, non ha l’impressione che la sua arte diventi anche una sorta di auto-esorcismo?
Per guardarle in faccia. Non le puoi vincere e non te ne puoi allontanare, ma bisogna che le guardi in faccia. E’ già un passo importante.

 

Postato in Numero 100, Registi.

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