Intervista a Cristina Oddone autrice di “Loro dentro”


Loro dentro - Locandina del filmL’autrice di Loro dentro racconta la sua esperienza video al carcere di Marassi tra scelte registiche, riflessioni sociali e idee per il futuro.

Da Herzog ai fratelli Taviani: sembra che quest’anno il cinema documentario si sia particolarmente interessato al tema del carcere, un’istituzione totale e problematica che la settima arte durante la sua storia ha spesso affrontato nei modi più diversi e disparati.

A dimostrare ulteriormente tutto ciò contribuisce anche la giovane filmaker ligure Cristina Oddone con il suo Loro dentro, mediometraggio che ha vinto il primo premio del concorso regionale Obiettivo Liguria al 15° Genova Film Festival.

Il documentario ha preso vita grazie ad un gruppo di 6 persone del Laboratorio di Sociologia Visuale dell’Università di Genova che, con il sostegno della Provincia, ha creato un laboratorio all’interno del penitenziario di Marassi e realizzato delle riprese tra febbraio e giugno del 2011.

Loro dentro può essere considerato – almeno in parte – un documentario d’osservazione, in quanto mostra alcuni momenti della vita quotidiana dei detenuti e lascia molto spazio alle loro testimonianze, evitando però le classiche interviste frontali.

Forse, il più grande merito del film è quello di aver mantenuto la “giusta distanza” dall’argomento. Infatti, il video non è mai né retorico, né freddo e distaccato, garantendo così il coinvolgimento dello spettatore sia a livello emotivo che riflessivo.

In occasione della sua vittoria al Genova Film Festival ho intervistato Cristina Oddone.

Cristina OddoneIl lavoro è durato alcuni mesi e la vostra presenza è stata costante, con una visita settimanale di 4/5 ore. Mi puoi raccontare com’è nato e, soprattutto, come si è sviluppato il progetto?
Sicuramente il tema del carcere m’interessa da tempo, fin dai primi lavori realizzati in Venezuela per Avila Tv e al penitenziario di Chiavari con l’Università di Genova.

Il progetto di creare un laboratorio video al carcere di Marassi ha rappresentato un’occasione perfetta sia per proseguire le mie ricerche sull’argomento che per sperimentare l’uso terapeutico della telecamera, questione che mi ha sempre affascinata.

In primis, abbiamo voluto lavorare solo con dieci giovani di un’età compresa tra i 20 e i 30 anni, ritenendo questo un periodo fondamentale per il percorso biografico d’ognuno, in quanto è il momento in cui comincia la vita adulta.

L’idea e la struttura del documentario sono però arrivate gradualmente, man mano che procedeva il laboratorio e si prendeva confidenza con i detenuti.

Inizialmente, abbiamo chiesto ai ragazzi di mettere in scena i colloqui e alcuni momenti di tempo libero, invitandoli a comprendere l’artificialità del video e cercando di aiutarli a prendere confidenza con la telecamera.

In una seconda fase, quando abbiamo avuto la possibilità di visitare alcuni spazi comuni come il cortile, il campo, le cucine e la sala colloqui, i ragazzi hanno cominciato spontaneamente ad aprirsi, mostrando se stessi, i loro segni e i loro tatuaggi. Qui abbiamo capito che si poteva pensare ad un documentario perché i detenuti avevano dimostrato di fidarsi di noi.

Durante l’ultima parte del laboratorio siamo ritornati nell’aula e i detenuti hanno parlato e riflettuto soprattutto sulla loro vita all’interno del carcere. Da qui in poi è nata la vera e propria struttura del film.

Dal punto di vista umano cosa che ti ha maggiormente colpita di tale esperienza?
Anche se può sembrare banale direi l’ingiustizia della società in cui viviamo. La nostra vita viene in qualche modo influenzata e determinata dalla condizione economica/sociale in cui nasciamo, e dalla quale è difficile emanciparsi, soprattutto per chi è povero, emigrato, straniero, tossicodipendente. Purtroppo, il carcere aumenta i muri, accentua le differenze, rappresenta uno stigma e uno status, con i suoi valori e i suoi codici.

Quale rapporto avete avuto con le istituzioni carcerarie?
All’inizio c’è stato molto interesse per il laboratorio e per il progetto, mentre durante la lavorazione abbiamo riscontrato una certa indifferenza da parte delle istituzioni, atti burocratici a parte.

Devo ammettere comunque che non abbiamo avuto alcuna difficoltà nel portare avanti il nostro lavoro. Ad esempio, quando il direttore ha visto il documentario, pur ritenendolo piuttosto critico con il sistema penitenziario, ha riconosciuto che il punto di vista adottato è volutamente parziale e specifico, quindi non ha fatto alcun tentativo per modificare il montaggio.

Questo lavoro cosa ti ha insegnato dal punto di vista registico e cinematografico?
Indubbiamente ad osservare e prendere confidenza con lo spazio. All’inizio cercavo inquadrature fredde e campi medi/lunghi. Man mano che il documentario procedeva ho però scoperto che la freddezza iniziale non mi soddisfaceva più e così ho cercato di “rompere” lo schermo mettendo in scena la corporeità dei ragazzi, concentrandomi soprattutto sui loro volti e sui loro corpi attraverso alcuni piani ravvicinati.

Inoltre, Loro dentro mi ha permesso di lavorare sul ritmo. Ho, infatti, cercato di alternare momenti lenti e “piatti”, dove gli spazi risultano vuoti e i pochi oggetti diventano predominati, a scene più adrenaliniche, composte da momenti ironici, giochi e partite di calcio.

Questa alternanza è fondamentale perché non volevo rappresentare solo l’aspetto drammatico del carcere, ma avevo invece la volontà di mostrare anche l’affetto e l’energia che alleviano la vita e le giornate dei detenuti.

I tuoi lavori per Avila Tv in Venezuela e gli altri video precedenti hanno in qualche modo influenzato Loro dentro?
Sicuramente nei video che ho realizzato c’è sempre stata una certa attenzione al sociale e al documentario, anche perché erano brevi filmati di tipo informativo riguardanti manifestazioni e inchieste di vario tipo.

È stando però in televisione che ho imparato ad usare il mezzo. Avila Tv è stata un’importante esperienza formativa, in quanto da un lato mi ha permesso di realizzare dei video su dei gruppi di persone inserite in contesti marginali – tra cui le favelas di Caracas e il carcere – e dall’altro mi ha “costretta” a mantenere e creare un ritmo dinamico e veloce, adatto per il target giovanile dell’emittente.

In questo momento, dopo aver realizzato tale documentario, posso iniziare a percorrere altre strade, almeno così spero.

A proposito di progetti e programmi futuri, non sono in pochi a chiedersi se potrà nascere o se si stia già formando una sorta di New Wave di documentaristi e filmakers liguri. Tu cosa ne pensi?
Certamente mi piacerebbe molto che accadesse. È da tre anni che vivo a Genova e devo dire che le persone impegnate in tal senso ci sono e il clima in generale si sente, ma bisogna stimolarlo, sostenendo progetti produttivi e dando maggiore visibilità al genere documentario, cosa che in Liguria risulta difficile. Purtroppo, noto che si tende sempre a guardare all’estero o a città italiane come Roma e Torino.

Eppure, idee e possibilità non mancherebbero: sarebbe ad esempio interessante realizzare un documentario collettivo su Genova che vada al di fuori dei soliti stereotipi, creare uno spazio permanente per garantire la divulgazione delle produzioni locali e nazionali, o, magari, dare vita ad una sorta di Avila Tv ligure.

In ogni caso, ho deciso di restare a Genova perché credo che sia importante cercare di creare qualcosa in questa città e in questa regione.

(di Juri Saitta)

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